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La letteratura, come la vita, è molto strana perché, molto spesso, libri di poco valore hanno grande  successo, mentre veri gioielli restano sotterrati e dimenticati. Lo stesso avviene per gli scrittori il cui successo è legato a fattori diversi e non propriamente alla validità delle opere da loro scritte.

Angelo Petyx è stato uno scrittore schivo e appartato, forse anche per sua scelta personale. Ebbe una certa notorietà quando Vittorini gli pubblicò, con la Mondadori nel 1957, “La miniera occupata” per il quale è ricordato dal mondo letterario. Ma poi ha pubblicato tanti altri libri che sono stati editi da case editrici minori e che non furono notati dalla grande critica militante.

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Noi, in occasione del centenario della nascita, che ricorre il due novembre del 2012, stiamo leggendo tutti i suoi scritti e stiamo scoprendo uno scrittore che aveva grande talento, un pittore della natura, un osservatore dell’ambiente che lo circondava, un rappresentante del neorealismo a cui  restò legato, per la necessità di raccontare il mondo terribile della sua infanzia, del suo paese, dei contadini, degli zolfatari, della fame antica di secoli di un popolo che ha subito duemila anni di angherie e di sorpusi.

E la sua letteratura diventa, quindi, grido di dolore di una umanità sofferente che è quella della Sicilia antica e profonda ma che può essere dei paesi africani che ancora vivono in condizioni peggiori di quelle descritte dal nostro autore.

“La miniera occupata” è un romanzo emblematico del mondo degli zolfatari, la storia di un giovane che si vuole riscattare con i libri e con l’amore, ma che è costretto ad emigrare per trovare la sua via, rinunziando alle sue cose e al suo amore. E’ la stessa storia del protagonista de “La luna si mangia i morti” del conterraneo Antonio Russello.

“Il sogno di un pazzo” è il dramma terribile della fame, la storia di un uomo che non riesce a riscattarsi, né con i libri, né con l’arte, che diventa il sogno di un pazzo. La storia di un vinto che si aggiunge ai vinti di Verga, alla questione della irredimibilità della Sicilia di cui parla Tomasi di Lampedusa che pubblica nel suo stesso periodo.

“Le notti insonni di Liillà”, di cui noi ora vogliamo parlare  è, a nostro avviso, il libro di tutta una vita, il libro a cui Petyx avrà lavorato  intensamente per tantissimi anni e che assomma tutta la sua letteratura, la  filosofia degli ultimi, la religiosità e il  rifiuto della Chiesa militante dei potenti, il senso o il non senso del creato, la paura della morte, che nasce dall’amore per la vita e l’amore che, ai poveri, è negato perché si è poveri e straccioni.

Come un ruminante Petyx questo libro lo pensò e lo ripensò.

Prima scrisse un racconto intitolato “Come morì Brasciddu” pubblicato sul  giornale “Incidenze” anno II n.1-3 gennaio giugno 1960 che racchiude, in nuce, il libro “Le notti insonni di Lillà”. Nel 1976, con la stessa casa editrice Todariana, pubblica “Liillà ed altri racconti”.

Finalmente nel 1984 vede la luce “Le notti insonni di Liillà” con la casa editrice Todariana di Milano nella collana “Le scelte”,  collana di narratori contemporanei diretta da Teodoro Giùttari, e che, a nostro avviso, è il capolavoro di Angelo Petyx e questo lo diciamo prima di leggere altri suoi scritti quali “Gli sbandati” del 1971, “Il lungo viaggio” del 1986, “Anna è felice” del 1991, “L’amore respinto” del 1994.

Azzardiamo questo giudizio assoluto perché il libro ci ha veramente impressionati favorevolmente.

Chi, come noi, ha una età molto avanzata e ha potuto, in parte, vivere quel tempo, resta sconvolto dalle cose descritte da Petyx, dal modo come lui le racconta, dai particolari che riesce a cogliere, dalle considerazioni terribili che fa su quel mondo, e su la vita condotta da gente condannata da un destino drammatico a vivere una condizione sociale senza via d’uscita, sognando un paradiso che è lontano e che  “ha dda veni’”e forse è impersonato da Baffone, il mitico Stalin che, per un certo periodo, è stato immaginato come il liberatore dalla fame e dalla schiavitù dei relitt i di tutto il mondo.

Il protagonista del libro è Liillà ovvero Filì (Filippo)  che nel racconto era Brasciddu, uno zolfataro vedovo mandato in pensione perché lo zolfo gli ha bruciato i polmoni. Attorno a Liillà si muove il paese intero: il prete, il sagrestano, il farmacista, il barbiere, Buzzichino, altro zolfataro con i polmoni bruciati, le donne del paese e soprattutto Anna La Cilìa che dà i suoi favori agli uomini del paese che, con lei, soddisfano le loro esigenze amorose.

I personaggi portano i nomignoli tipici dei paesi di un tempo: la Catalana, Campanella, Sparavento, Santo Cocilova, Panarazzo, Tirinnanna, Ristuccella, Peracotta, Cacavento, Maricchia la Bagianella, Pirillo, Rosa La Nasca, Arcangela Sciarra, Peppe Tammurinaru, Mangiaceci, Cianciminestra, Rosa Ballacazizza, Sparavento e tutti rappresentano i personaggi del coro greco, che si trova in tutti i romanzi di Petyx ambientati in Sicilia.

Ognuno recita la sua parte tragica di dolore e di miseria; solo Damblè e Muscarà cantano altra musica perché loro sono proprietari terrieri e si possono permettere di comprare la carne tutti i giorni e bere il vino di Vittoria che dà gioia e vigore.

Damblè e Muscarà rifiutano di attuare la legge Vullo che impone una diversa ripartizione del grano nell’aia a favore dei contadini e per attuare la legge occorre l’intervento del Segretario della Camera del Lavoro e dei carabinieri.

Il coro ha come scena il paese assolato circandato da tante miniere di zolfo, il cui fumo dei calcheroni arriva fino in paese, una campagna arida, affogata dallo scirocco, le ‘vaneddre’ dove si svolge la vita del paese.

Nella ‘vaneddra’ le donne cuciono i panni da rattoppare,  puliscono le mandorle, lavano e stendono i panni, le raggazze ricamano al tombolo, le galline camminano  e la mattina con il fresco o la sera al tramonto le donne e i pensionati si siedono davanti la porta per parlare e sparlare di tutto e di tutti.

Liillà, che non è come tutti gli altri, perché legge i giornali, e qualche libro che gli ha dato l’Ing. La Vecchia, ha la capacità di cogliere la bellezza della natura ed è affascinato dall’azzurro del cielo, dalla miriade di stelle, dalla luna che ha la forma di una falce, dal cardellino che si posa sempre sull’albero di acacia e canta la sua dolce musica.

Liillà amava la scuola e avrebbe voluto studiare ma il padre, a undici anni, lo portò in miniera per potere aiutare la famiglia a sbarcare il lunario: “Una volta, dice Liillà, da prima che il fumo di Gibellini mi consumasse i polmoni, avrei voluto leggere, divorare tutti i libri del mondo, perché la mia curiosità, bramosia di sapere ciò che l’intelligenza umana aveva prodotto in alcuni campi era insaziabile, mentre ora…sono qui che aspetto la morte”.

“La scuola che mi ha fatto l’ingegnere (Lo Vullo) è stata una cosa assai importante e decisiva per la mia formazione culturale e spirituale, perché sono venuto a conoscere scrittori e poeti e filosofi e storici, che altrimenti mi sarebbero rimasti per sempre sconosciuti”.

E’ da dire che i protagonisti dei libri di Petyx sono personaggi che hanno avuto contatti con i libri come Paolo de “La Miniera occupata” e Antonio de “Il sogno di un pazzo”. La cultura ha reso diversi questi personaggi che hanno preso contezza della loro miseria, del loro stato di inferiorità, che hanno sognato il comunismo che, in quel periodo, rappresentò l’idea del riscatto; e i paria dei paesi sognarono il paradiso sovietico e impersonarono in Peppino Stalin il loro liberatore.

Il mondo, per fortuna andò avanti, molte cose cambiarono, ma il risveglio dal sogno è stato molto amaro, come per il calzolaio di Sciascia del racconto “La morte di Stalin”. E queste cose non potevano sfuggire a Petyx che visse il fascismo e ne fu oppositore, che fece la guerra, che fece il partigiano e abbracciò il sogno comunista.

Liillà aveva una pensione di fame e doveva razionare le circa seimila lire mensili per avere a tavola un poco di pasta col pomodoro, un poco di pane e una acciuga scondita la mattina e una la sera. Il suo pasto abituale era “il pane, una cipolla e il sale”. “Gli sarebbe piaciuta una costoletta di castrato con una strizzatina di limone o un quartino di agnello (la vitella era troppo costosa per le sue finanze, e così il capretto) da fare a stufato con due patatine e una cipolla”. Ma i soldi erano pochi e i giorni per arrivare al sedici, giorno della riscossione della pensione, erano molti.

“La fame dei siciliani, e non dei siciliani soltanto, dice Liilà, era lunga di secoli, di millenni…la nostra speranza è il comunismo”.

La fame di Petyx è la fame di Sciascia che, a Pannella che lo invitava a fare lo sciopero della fame, rispose che avrebbe attuato qualsiasi forma di protesta ma non quella dello sciopero della fame perchè gli avrebbe ricordato una fame atavica che nella sua famiglia e in Sicilia, si tramandava da generazioni in generazioni.

Il problema della fame, che è la protagonista de “Il sogno di un pazzo”,  qui fa da leit motif e ritorna in ogni momento perchè il vuoto dello stomaco fa attorcigliare le budella. E Liillà spera nell’aumento della pensione per avere una vita più dignitosa. Ogni giorno sente la radio e va a leggere i giornali dal barbiere per vedere se Di Vittortio la spunta contro i governi democristiani che non vogliono accordare l’aumento tanto aspettato da turbe di affamati.

I governanti affermano che non ci sono i soldi per accordare l’aumento delle pensioni. “Il Governo, dice Liillà, lascia che aumentino il pane, la pasta, l’olio e il resto, ma non le pensioni come vuole quel sant’uomo di Di Vittorio, perché dice che non ci sono i fondi. Ma come fanno a esserci quei benedetti fondi se Damblè e Muscarà e camerati non pagano le tasse in ragione della loro ricchezza?”.

E intanto mentre la gente muore di fame ci sono altri, afferma Celone che è dirigente della Camera del lavoro, che prendono trentamila lire al mese, come se fossero cicerchie o, come noi diciamo, “fravecchi”. Basterebbe ridurre questi stipendi e aiutare i poverissimi.

La storia è sempre uguale e si ripete, ma il povero è sempre il perdente, il vinto, perché il ricco è potente e quindi comanda e fa le leggi secondo le sue convenienze.

Pur tuttavia Liillà ama la vita. “Che cosa meravigliosa lo spettacolo della vita perché, cos’è essa se non un grande, meraviglioso spettacolo”….  “La mia sventura è che, pur essendo solo, malato e povero, io sono disperatamente  attaccato alla vita” e a chi gli chiede cosa toglierebbe a lui la morte, risponde “Niente è per voi  la straordinaria, ineffabile visione di una donna come Anna La Cilìa? Non sono niente le chiacchierate che ci facciamo  al fresco nelle notti in cui non ha impegni con chi le chiede qualche ora di piacere? La speranza che il governo mi aumenti la pensione e…Come potete dire che la morte  non toglierebbe nulla a uno come me”.

E appunto per questo grande amore per la vita Liillà, che ha i polmoni bruciati dalla zolfo e che stenta a respirare, ha paura della morte  e passa le notti a vegliare perché la morte non lo colga a tradimento. Liillà la notte non riesce a respirare bene e quindi non può dormire, veglia e pensa al senso della vita, alla religione,  alla fede. E’ “cosa terribile mettersi a letto col terrore di non rivedere più il giorno”

“Tanti trovano rifugio nella fede nell’aldilà, in Dio, ma rimane il fatto che non riescono nemmeno loro ad accettare la morte con la serenità e la saggezza che predica padre Piccillo”. “La paura della morte non si vince né con la fede in Dio né con i sofismi dei filosofi…la fede non è scienza ma speranza di regni immaginari e le elucubrazioni dei filosofi e teologi vaniloqui, fumo”.

“So anch’io che per liberarmi dall’orrore, ossessione della morte, la via più sicura sarebbe la fede. Ma come faccio se questa benedetta fede non ce l’ho e non conosco la strada che vi conduce?…Si fa presto a dire ‘umìliati’, ‘mettiti nelle mani del Signore’. Già, ma io è che in Dio che non credo e quindi come faccio a umiliarmi, a mettermi nelle sue mani?”. L’Ing. Lo Vullo oppone a Dio La Ragione e la ragione non può spiegarsi certi misteri.

Tutti si consolano che ricchi e poveri andremo a “Marialicani” (il cimitero) ma che consolazione è questa?

Altri si consolano che andranno in paradiso ma da milioni di anni “l’uomo trapassa e mai nessuno che giunga di là per dire cos’ha visto, come si sta. E tuttavia, sempre che un di Là ci sia, sarebbe bene che di quando in quando venisse inviato qualcuno, un messaggero, per annunziare cos’ha visto  e qual è la condizione dell’anima. Niente, mai nessuno che giunga di là”.

Liillà ha i giorni contati e riflette sul senso della vita dandosi le risposte più semplici, più ovvie e diventa filosofo, filosofo dell’ovvietà, del pensar popolare, della gente comune.

“Tutto opera del caso è, pensa Liillà, non della Provvidenza, come dice Sant’Agostino, perché fosse la Divina Provvidenza a ordinare le cose, la storia, nel mondo regnerebbe la pace, la giustizia e l’amore”.

E la creazione di Dio “si è dimostrata un fallimento, una tragedia, col male che regna nel mondo”.

Questi sono i concetti dello zolfataro filosofo che non dorme per via dei polmoni che gli fanno mancare il respiro e che veglia per fugare la morte.

Molto spesso è costretto ad andare a letto a notte fonda e la mattina, quando gli manca il respiro, si alza prestissimo e va in giro ad ammirare la bellezza della natura.-

La creazione sarà un fallimento ma Liillà è affascinato dalle stelle, dalla luna quando è come una falce, dalla stella più lucente nel cielo, dalle miriade di stelle che fanno riflettere sul mistero della creazione.

E come tutti gli uomini che sentono vicino la morte, gode con più gusto la bellezza della vita e della natura e, nel descrivere il paese, la natura, Petyx diventa un lirico, un pittore che coglie i minimi particolari della scena della vita per farli assurgere a simboli.

“Che bella cosa il giorno, sospirò Liillà, che non sapeva cosa dire; e continuò: ‘però il momento più bello è quello  del mattino quando la luce rompe il buio della notte e gli uccellini si svegliano e cantano, cantano i galli e i contadini escono sulla strada e…”.

E ancora un altro bozzetto di vita paesana:

“Cantò il gallo di Arcangela Sciarra, a cui di lì a poco rispose quello di Nalugia che, a furia di far l’amore con tutte le galline del vicinato, gli era venuta la voce roca; abbaiò Barraggello, il Cane della Vampa, e l’orologio della chiesa battè le tre e mezzo. ‘ A momenti sarà giorno e non fosse che ho le ossa rotte m’andrei a sedere fuori’ disse, e restò con gli occhi incollati alla porta dalle cui fessure sarebbero entrati la luce del nuovo giorno e lo zinzilulìo delle rondinelle che, dal nido, svolavano sui fili elettrici e cantavano nell’incipiente chiarore dell’alba”.

Certamente Petyx a Cuneo restò come emigrato e nel suo cervello rimuginava la sua infanzia, il suo paese da cui non si distaccò mai e lo descriveva, nei suoi libri, con cura e meticolosità, osservando particolari che solo un grande scrittore poteva vedere.

“I pulcini, la zampetta sinistra sotto il pancino, spiavano a dritta e a manca”, oppure “Tirò fuori il fazzoletto rosso a pallini bianchi”. Questi sono particolari che forse i giovani di oggi non potranno apprezzare ma noi anziani ne godiamo profondamente perché sono cose che abbiamo visto e che ora Petyx ci ricorda creando struggimento nei nostri cuori, per un mondo antico che abbiamo perduto e di cui abbiamo ricordi ma non nostalgia.

“Contro il muro a tramontana da Paolina, della Catalana, e di Naluggia, le galline si spollonavano il petto, le ali;  guardavano davanti a sé inebetite, ubriache di luce; le vie erano deserte, corse da buffi infuocati di scirocco; di quando in quando un cane traversava la strada, annusava questo, quel cantone, l’innaffia d’orina e scompariva silenzioso come era comparso…”

“…A Rovetello, alla Marchisa e Cocilova cantavano gli ortolani, le calandre e le allodole; un forasiepe faceva la spola tra le erbacce secche di Cozzotondo, dove dava la caccia ai grilli e alle àmate, e la cava sotto di gesso, nella quale aveva il nido con i piccoli; sparse per i mondezzai, le galline vagavano volgendo di qua, di là, lo sguardo vuoto, spento; nel vicino ricovero i passeri facevano una  gazzarra indiavolata, mentre di là da Stincone, il sole avvampa l’orizzonte”.

Come si vede Petyx dipinge i quadri e ci fa ascoltare anche le sinfonie della natura di un tempo non contaminata dal rumore delle macchine, né dai diserbanti che stanno ucidendo l’habitat naturale degli uccelli e degli animali.

Le sinfonie scritte da Petyx sono più vere e struggenti di quelle di Mozart: “Sul tetto dell’Ospizio luceva il falcetto della luna nuova, brillavano a miriade le stelle, l’aria era piena del gracidìo delle rane, dello stridìo dei grilli e dei sospiri degli usignoli; dalle parti del marcato, il gufo non smetteva di mandare lagni”.

“….Ecco, la notte Lillà sbarrava gli occhietti interroriti di topo nella trappola e aspettava cantassero i galli di Paolina, di Naluggia, della Catalana, abbaiasse il cane di Arcangelo Sciarra. La prima volta cantavano verso le due, poi all’alba. Accadeva però cantasero prima della mezzanotte, o addirittura al tramonto. ‘Se cantano fuori orario (prima della mezzanotte cioè, al tramonto), è segno che il tempo cambia’ diceva, e il tempo cambiava infallibilmente, perché altro che Barbanera erano i galli di Paolina, della Catalana, diNaluggia.. Quindi ascoltato i galli, i cani, i gatti, che nelle notti di luna piena si davano l’appuntamento sul tetto di casa sua, tra vasi di garofani e di rose dei balconi di Anna, di Paolina e della Catalana, e celebravano il matrimonio con alti, strazianti miagolii, di godimento”.

Può sembrare strano a chi è cresciuto nelle  città e che mangia i polli cresciuti nelle incubatrici o i vitelli allevati con gli estrogeni, che gli animali possano prevedere il tempo che farà. Non è cosa strana. E’ vero che gli animali sentono che il tempo cambierà, è vero che i gatti e i cani sentono, prima dell’uomo, l’arrivo di un  terremoto, è vero che se la gallina canta di notte, in quella casa ci sarà un morto, come è vero che il canto della civettà sul tetto di una casa, viene a chiedere la vita di una persona.

Quando morì il padre di Liillà la gallina aveva cantato la notte e la civetta aveva sorvolato la sua casa con un grido di morte.

Liillà aveva paura della sua prossima fine anche se sapeva che la morte “ è l’ultima speranza”, come diceva Sciascia.

Ripensa al suo primo amore, a Salvatrice che non ha potuto sposare, decide di sposare Anna La Cilìa.

Ma la notte la sua gallina ha cantato e la civetta ha sorvolato il suo tetto lanciando un grido di morte.

Nessuno, oggi, crederà a questi segni premonitori, ma Liillà ci crede, ha l’esperienza della morte del padre.

Terribile, ma è così…Siamo superstiziosi? No, non lo siamo…ma è così.

E Petyx lo sapeva che questa non era superstizione.

La filosofia della povera gente, il dubbio sulle verità della metafisica, l’amore della vita e la paura della morte, il paese con la sua vita semplice e genuina, la natura selvaggia e bella ad un tempo, sono gli ingredienti della grande opera di Petyx che il mondo letterario dovrebbe riscoprire facendo mea culpa per non avere apprezzato un’opera così bella e uno scrittore così raffinato, che usa una prosa molto più corposa di quella usata ne “La miniera occupata”, con gli anacoluti usati da Russello e con riferimenti alla lingua siciliana di cui tutti i grandi letterati siciliani non possono fare a meno perché il siciliano è frutto di una grande sedimentazione culturale che va dai greci, ai romani, agli arabi, agli spagnoli, ai francesi.

Il libro è pieno di detti siciliani, tradotti in italiano “mi vado a fare un pisolino e CHI CAMPA LA CONTA”, che darei a mangiare a una donna “TESTE DI COTOPILLE”, io ho visto “I GUAI DEL LINO”, “SE LO PORTI ALL’INFERNO CON TUTTE LE SCARPE”, “L’AMICO DELLE CILIEGIE”, “TI FACCIO VEDERE DI CHE ERBA SI FA LA SCOPA”.

Questi detti fanno da ornamento al racconto e lo arricchiscono, rendendolo più vero e più aderente alla realtà. La stessa operazione la fa continuamente Simonetta Agnello.

Petyx, in questa opera, ha dimostrato di avere maturato una scrittura più pregnante, più piena e questo ci fa dire che, come Russello, ha avuto il dramma della ricerca del linguaggio che è rovello di tutti i grandi scrittori.

Petyx cantore degli ultimi, dei reietti, i quali però hanno sentimenti come tutti e hanno la speranza che il mondo dovrà necessariamente cambiare.

Petyx scrittore minimalista ante litteram? Certamente anche quest’opera ci conferma nella nostra analisi;

uno scrittore pervicacemente neorealista e minimalista, neorealista per necessità, per bisogno, come abbiamo detto, di narrare il suo mondo a futura memoria…perché gli altri ricordassero, perché non si dimenticassero le sofferenze di quanti prepararono il nostro modo di essere.

E dobbiamo dire che il discorso di Petyx non è un discorso di un paese e quindi una storia che non ha respiro universale. La storia è ambientata in Sicilia, ma poteva essere ambientata nel Veneto povero e contadino, nelle terre del terzo mondo, in qualsiasi luogo dove l’uomo soffre i sorprusi, lo sfruttamento, le fame e l’indigenza.

“Le notti insonni di Liillà” non ci ha fatto dirmire e ci ha creato tante problematiche e noi siamo certi che questo libro, nel centesimo anniversario della nascita del suo autore, rivivrà con qualche grande editore che  vorrà proporlo agli attenti lettori italiani che, così, potranno scoprire le loro origini e la loro storia non molto antica e apprezzare uno scrittore tra i più significativi del secondo novecento italiano.

Vogliamo concludere queste nostre riflessioni con quanto ha scritto nella quarta di copertina  al libro di Petyx “Anna è felice” Teodoro Giùttari: “Angel Petyx, comunque al di là di ogni apparenza, è stato sempre indipendente, un solitario votato a un suo ideale d’arte e di scrittura, e il racconto Liillà (Liillà ed altri racconti del 1976) divenuto poi il romanzo “Le notti insonni di Liillà” (1984) è uno dei suoi capolavori, che prima o poi sarà riscoperto, se è vero, come la storia ci insegna, che la partita del dare e dell’ avere in letteratura finisce sempre con il quadrare”.

E quest’anno del centenario della nascita di Angelo Petyx sarà certamente l’anno della scoperta del libro “Le notti insonni di Liillà” e del suo grande autore. E il conto della storia letteraria troverà la sua quadratura.

Agrigento, lì 4 marzo 2012

Gaspare Agnello