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L’idea di vero e di falso

è solo nella nostra mente (G. Parlato)

Giovanni Parlato è un agrigentino, certamente di scoglio, che vive fuori della sua città e che ha la testa attaccata al suo scoglio, come del resto avviene per tutti gli emigrati che soffrono della grave malattia della nostalgia.

Con ”Il quaderno perduto di Pirandello” edito da ‘Felici Editore’ è alla sua prima opera narrativa, anche se ha già pubblicato il libro “Lui non dette l’ordine. Il caso Sofri e la memoria” .

Evidentemente l’ambientazione  è la sua città natale, il vecchio quartiere di Santa Croce, il cimitero di Buonamorone, la Rupe Atenea, San Calogero, il Santo nero, i caselli ferroviari della campagna siciliana che furono di Antonio Russello, di Elio Vittorini, di Quasimodo e la protagonista è la nonna Fofò, sposata a un carrettiere che diventa casellante e che dà alla luce, nei vari caselli ferroviari, ben otto figli.

Nel libro si aggira imponente l’ombra di Pirandello che è sempre presente e interloquisce e che certamente è l’ispiratore, il padre adottivo dell’Autore.

Del resto Pirandello è stato e continua a essere, volente o nolente, il padre adottivo di tutti i letterati siciliani che non possono fare a meno dei grandi padri. Questo è avvenuto per Leonardo Sciascia, per Camilleri, per Collura e per tantissimi altri.

Giovanni Parlato ha voluto narrare la storia della propria nonna e quindi di quel tempo, di quel mondo rurale che odorava di stalla e che incominciava a vivere il progresso che arrivava con la ferrovia, la tragedia delle miniere e dei carusi, la durezza del lavoro al molo di Girgenti, l’esigenza che si avvertiva nelle famiglie di mandare i figli a scuola per cambiare la loro vita e il loro destino di schiavi.

L’Autore, che è la voce narrante, volendo parlare della sua nonna e di Pirandello, ricorre a un espediente  accattivante che fa diventare il libro veramente originale.

Lui giornalista, viene a conoscenza che un certo Kurt Wielm di Bonn sarebbe in possesso di un  quaderno che conterrebbe la prima novella di Pirandello scritta all’età di 12 anni e qui si intreccia una storia che ha il sapore del giallo, della falsificazione, dell’avventura giornalistica che sarebbe lungo raccontare e che ognuno deve gustare attraverso la lettura.

La storia della novella, che non è stata ultimata, coincide quasi perfettamente con la vita della nonna dell’Autore per cui egli è portato a completarla e darla alle stampe come se fosse stata scritta per intero da Pirandello, facendo così uno scoop letterario importantissimo e redditizio.

Quindi si intrecciano viaggi a Bonn, a Parigi dove c’è un editore disposto a pubblicare la novella, in Sicilia dove c’è il cugino Lulù che dovrebbe imitare la grafia di Pirandello e fare apparire vero il falso.

Riviviamo la Bonn di Pirandello, i suoi amori giovanili, la sua vita di studente, Parigi, che allora era la capitale della cultura europea e anche mondiale, ma soprattutto la Sicilia di Lulù, di nonna Fofò, di nonno Gaetano, dei mafiosi dediti all’abigeato. Il racconto diventa eccezionale quando si parla di Nonna Fofò e della Sicilia. “In fondo mi tuffo nella vita di mia nonna,un bel po’ di anni fa e nel cuore della campagna siciliana. Credete voi che sia così facile? Io sento gli odori di quella campagna, l’aria fresca quando albeggia mi entra nello spirito, la polvere si alza quando nonna Fofò cammina nell’orto, sento il rumore del secchio che dà uno schiaffo all’acqua in fondo al pozzo. Rumori vivi, odori veri. Niente di falso. Niente come quei due colpi di lupara….” “Riassaporo quell’odore di stalla lungo la scalinata(di Santa Croce)…” “penso a mia nonna che seduta all’ombra schiacciava con un sasso le mandorle e le fave secche”.

Questi ricordi dell’Autore, mi riportano alla mia infanzia nel mio paese dove la vita delle donne si svolgeva nelle ‘vaneddre’ dove c’era chi ricamava, chi rammendava, chi schiacciava le fave secche o le mandorle, chi levava i pidocchi dalla testa dei figli e negli anni cinquanta bastava andare di pomeriggio nelle vaneddre per incontrare tutta l’umanità di un paese che era l’umanità del mondo. E qui è d’uopo dire che le famiglie così numerose con otto o dieci figli, come quelle dei miei genitori, si reggevano per la forza delle donne che, con il loro lavoro casalingo, consentivano alla famiglia di poter vivere dignitosamente. Ma con quanti terribili sacrifici per le varie nonne Fofò? Che mantenevano in piedi le famiglie e nel contempo credevano nell’avvenire dei figli fino al punto di prendere a schiaffi il direttore della scuola che suggeriva alla nonna di mandare i figli a lavorare nelle miniere o al porto invece di perdere tempo a farli studiare.

E alla fine l’Autore vuole fare un omaggio ai cibi siciliani e descrive i nostri vini, i nostri dolci, il nostro pesce. La schiticchiata presso il casello dell’omomorto di Siculiana con la spigola arrostita con la brace e con le bottiglie di vino che scompaiono una dietro l’altra, è veramente un inno al buon cibo e alla vita spensierata tra campagna e mare di Sicilia.

C’è da dire che l’autore ha una moglie che aspetta un figlio; la moglie è un fatto marginale che, tra un viaggio a Bon, uno a Parigi, uno ad Agrigento, è sentita con qualche telefonata fatta o ricevuta con fastidio.

Nella testa del protagonista-autore c’è nonna Fofò, la Sicilia, il quartiere di Santa Croce, c’è Pirandello con la follia e la gelosia che sono tipiche dei suoi personaggi.

Anche attraverso la parlata il nostro autore resta ad Agrigento usando, qualche volta, la parlata giurgintana: “Unni stati jennu?”.”A San Leone, stiamo andando, a San Leone” rispondiamo.

“Avia a ghiri a u Cavusu”.-

“Nenti , semu fori strata”

Oppure “ Ma dove era mai capitata?”

O ancora “Ti riempi di freddo”.

“Una storia che ho sempre sognato di raccontare”, dice l’autor e, l’ha raccontata in maniera egregia suscitando in noi  sentimenti antichi di radicamento a un ambiente, a una vita, a una cultura senza le quali noi non saremmo niente. Chi non ha radici non potrà crescere e sarà sempre un “destierro”, come direbbe Sciascia. Noi le radici le abbiamo in nonna Fofò che è la nonna di tutti noi borghesi ‘piccoli piccoli’ con l’abito scuro e la pelle che ancora fa odore o di stalla, o di terra, o di zolfo, o di sale; le radici le abbiamo in Verga, in Pirandello, Sciascia e tantissimi scrittori che hanno raccontato il dolore e il mondo da cui veniamo.

Il libro di Giovanni Parlato è un atto d’amore e i figli dell’amore, anche rubato, sono i più belli e quelli che più ci assomigliano, anche se presentano qualche piccolo difetto.

Forse l’autrice è la stessa nonna Fofò che amava raccontare ai nipoti la sua lunga e dura vita e per questo quest’opera prima ha il sapore delle cose buone di casa.

Agrigento, lì  14.3.2014

Gaspare Agnello