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bronzo russello

1a Parte

Antonio Russello in vita ebbe poca fortuna letteraria anche se il suo esordio fu importante per la pubblicazione del suo libro “La luna si mangia i morti” con la Mondadori di Vittorini e per essere stato finalista al Campiello nel 1970 con il suo libro “Giangiacomo e Giambattista”. Ora viene a poco a poco alla luce tutta la sua opera grazie alla casa editrice “Santi Quaranta” di Treviso che ha già pubblicato ben sette titoli e che speriamo possa pubblicare altre opere inedite che certamente saranno molto utili al fine di meglio conoscere tutto il pensiero dello scrittore di Favara.  Aspettiamo la ripubblicazione del libro “Lo sfascismo” e la pubblicazione dell’inedito “Rovesciano” che, credo, sia molto importante ai fine della migliore conoscenza dell’autore. Leggendo le opere già pubblicate ci si rende subito conto che Russello è un grande “Narratore”, uno scrittore impegnato nelle problematiche del suo tempo, che ha avuto il grande rovello delle lingua che sa usare in toni diversi, “impervi”e affascinanti.

La narrativa di Russello non è  astratta o incolore, ma è rivolta al mondo che lo circonda,  alle tematiche sociali che sviluppa in modo incisivo fino a farlo diventare scrittore impegnato, cosa che a prima vista non appare.

In tutte le sue opere, anche in quelle più neutre, quali quelle dedicate alla sua Venezia, affiora la questione meridionale con tutte le sue problematiche e la sua drammaticità e il suo paese natale Favara diventa metafora del mondo, come Racalmuto lo è stato per Leonardo Sciascia.

Nella premessa a “La luna si mangia i morti”, Russello scrive: “ Questo libro è stato scritto nel 1953 in provincia di Padova e il paese a cui mi riferisco è Favara di Agrigento…

…Dico questo perché non credo che i manoscritti vengano trovati in una bottiglia, non credo cioè che una vicenda possa essere indifferentemente posta in una paese come in un altro.

C’è una fedeltà al di fuori della quale se l’autore si mette, rischia di essere orfano, rischia che la sua terra gli diventi matrigna..

Noi  ci portiamo appresso non solo lembi di terra cielo e sangue di chi ci fece, ma anche il peso di una data, della quale bisogna che uno scrittore assuma la piena responsabilità. E anche la data è una patria temporale in cui egli s’è sentito rivivere, ha sentito risalire il latte di quella nutrizione, il dolore di quella dentizione.

Ora io penso che si può essere fedeli a se stessi, solo quando l’ispirazione ci riporti sempre alla stessa terra, ci schiacci sempre sotto quell’urgere di terra e cielo e sangue i quali, come destino, perciostesso che continuamente premono, vogliono essere placati come spiriti cattivi, con l’evocarli”.

Da quanto detto si capisce chiaramente che Favara diventa, per Russello, il centro del mondo e da questo osservatorio particolare, emblematico, terribile per molti aspetti, osserva la Sicilia, l’Italia e i problemi del tempo, per narrarli così come li vede, ma soprattutto per dare un contributo al cambiamento del mondo, anche se l’amarezza che traspira dalle sue opere potrebbe portare al pessimismo tipico di tutti i grandi scrittori siciliani per i quali alcuni politici nutrono disistima come se fossero loro a creare le brutture del mondo che ci circonda.

Gli scrittori descrivono quello che vedono.

Partendo da Favara Russello conclude il ciclo dei grandi scrittori siciliani quali De Roberto con “I Vicerè”, Pirandello con  “I vecchi e i giovani”, Tomasi di Lampedusa con “Il Gattopardo”.

Quel ciclo descrive la Sicilia dallo sbarco di Garibaldi al 1910, Russello conclude il ciclo narrandoci la Sicilia degli anni venti, la Sicilia dei banditi, fino agli anni cinquanta del Novecento allorché si chiude l’epoca oscura del feudalesimo e si assiste alla totale decadenza della nobiltà siciliana che viene spogliata dai campieri e dai gabelloti e dalla propria inettitudine che li porta a dedicarsi agli ozi e alla dilapidazione delle  sostanze.

E con Russello notiamo che negli anni quaranta, con lo sbarco degli americani, tutto è cambiato ed è stato stravolto a differenza del periodo garibaldino in cui si cambiò tutto per non cambiare nulla.

Ne “La luna si mangia i morti” Russello prende atto del fallimento risorgimentale e del fatto che la Sicilia fu occupata dai piemontesi, anche se non lo dice mai espressamente, e constata che, in mancanza di uno Stato vicino, di uno Stato amico, la legge nella piana di Favara, viene amministrata dal bandito Verdone che viene visto come un eroe: “ Verdone faceva giustizia di quelli che gli facevano torto e di quelli che la facevano agli altri. La giustizia aveva paura di lui e chi diceva il suo nome, andava dove voleva”….”spuntava di lì nel cavallo bianco che pareva l’Arcangelo!”… “traditori li schiacciava come vermi”.

E questo mentre il concetto di mafia era, nella credenza popolare, caratterizzato da risvolti buonisti se non addirittura positivi.

“Cos’è la maffia?:…quando uno passa alle massarie e gli danno uova, cacio, pane, frutta, zitto e gli mettono sul cavallo un agnello sano, e non si dice nulla, e si saluta solo. Questo”.

Ma Russello sa che la mafia non è solo questo, sa che è prepotenza, illegalità, oppressione, strumento di potere dei feudatari e capisce che la Sicilia governata dalla mafia non ha prospettive.

E Laurè dice al figlio di Verdone: “Vorrei sollevarti come non ho potuto mai fare con nessuno dei nostri. Nessuno di noi ha migliorato qui.

Questo vuol dire che c’è un destino, una maledizione, che le teste sono guaste. Io sono uno straccio, la mia vita un fallimento: un anno di carcere, senza famiglia, disoccupazione sempre….Per questo ti dico stai attento…”

E qui Russello si fa interprete del sentire dei siciliani di allora e certamente di oggi. Il nonno dice al figlio di Verdone: “Basta volere e uscire di qui, e ricchi si diventa, mentre a rimanerci, il guaio è che noi di Sicilia il più misero sogno che facciamo è quello di diventare re”.

Russello  costata sulla sua pelle che per riuscire si deve uscire. Esce lui e diventa emigrato in Veneto escono tutte le braccia di Sicilia che vanno esuli in tutte le parti del mondo.

Ma in lui non c’è la rassegnazione,  dice ai siciliani che bisogna abbandonare i sogni dei banditi e passare dalla parte della giustizia.

Infatti Angelina la vedova del bandito Verdone, sposa un uomo di legge il brigadiere Lo Bianco, anche se a Favara si dice “meglio carogne che sbirri”.

Era difficile per Angelina saltare il fosso perché doveva superare tutti i pregiudizi del paese, la mentalità corrente, ma quel matrimonio è la metafora di tutta l’ideologia sociale di Antonio Russello. E’ un ammonimento per tutti gli uomini che aspirano al riscatto. Bisogna abbandonare la mafia, la illegalità e sposare la legge perché nella legge c’è il riscatto della Sicilia. Fuori dalla legge c’è il baratro e la fuga dello stesso Dio.

Angelina salta il fosso, supera i pregiudizi, sa che il brigadiere “la farà signora” e che il figlio di Verdone non sarà più il figlio del bandito ma diventerà il figlio di un uomo di legge e tutta la storia di mafia e di brigantaggio  sarà posta alle spalle. Ed il figlio di Angelina dice “ Ma io pensavo  perbacco che non ero un ragazzino, che conoscevo le cose, che quella storia era passata, e ora mi faceva da padre un onest’uomo, un uomo di legge, un pezzo grosso della città, e ne andavo fiero, mentre quell’altro era stato un assassino”.

Angelina è il sogno dello scrittore Russello che si contrappone alla dura realtà della sua terra, che si ostina a non voler cambiare e a nonimboccare la strada giusta.

E Russello va oltre immagina che Gesù venga in Sicilia per scegliere una terra dove nascere; ma arrivando a Favara si accorge che in quel luogo esiste la legge della faida: i Matina e i Vaccaro si uccidono a vicenda, uno dopo l’altro. Nessuno parla, nessuno tradisce, le donne sono tutte intabarrate dietro le mantelline o si nascondono dietro le persiane. Gesù non può nascere qui perché qui non si trova un Giuda, non si trova una donna capace di fare la madonna, e gli uomini si uccidono l’un l’altro. Gesù allora “ salì alla montagnella di Favara, venne in mezzo agli ulivi ch’era il tramonto e si buttò in ginocchio. Ma non poté dire ch’ erano assassini; ch’erano generosi sì, generosissimi da regalare a quelli che ammazzavano anche una tomba. E con gli occhi, cercando il Padre, singhiozzò: “Padre, aiutami, qui impazzisco, è troppo il sangue qui che ho avuto, è troppo il senso che m’hanno dato, è troppa la carne di cui mi hanno rivestito; aiutami Padre, bevo il calice del dolore, ma tu svestimi, spogliami di tanta carne e senso e riducimi a frutta agresta, a melagrana  agresta. Tutta, tutta da rifare la mia passione, Padre!  e il Padre: Non ti preoccupare, non avevo capito che per te era troppo forte questa terra, ma una copia della Sicilia meno forte c’è. La Palestina se vuoi…”

E Gesù si avvia per San Leone per andare in Palestina mentre “ tutti da Favara, da Grotte, Comitini, Aragona, Agrigento, gli venivano dietro perché non se n’andasse”.

Ma ormai Gesù aveva deciso: si imbarca per la Palestina: “Mi ricorderò” gridava nel vento. “Mi farò crocifiggere sul carrubbo” e salutava col fazzoletto, e IL CUORE GLI SI SPACCAVA  A LASCAIRE QUELL’ISOLA, e con le lacrime agli occhi balbettava: “PECCATO, PECCATO”.

L’incontro di Gesù con le popolazioni agrigentine non è nuovo: li aveva ammoniti nel discorso della Rupe Atenea che precede di circa cinquanta anni il discorso di Papa Giovanni Paolo II al piano San Gregorio, nella valle dei templi.

Nel libro “La grande sete” il Commissario Righi dice che “Delle volte era silenziosamente andato dietro il filo della predica domenicale in Chiesa che sceglieva, tra le pagine evangeliche, il “Discorso della Montagna”; e Gesù andava sulle creste  delle colline della Galilea, raccogliendosi ai piedi tutto il popolo.

A Righi questa immagine, gli s’era venuta a dissolvere, a filo di discorso e a filo di sogno, su per le alture dell’acropoli agrigentina: Gesù sopra, e sotto i contadini e gli zolfatari. “La legge” gli veniva di sentire. “Voi avete una vostra legge. Ma d’ora in poi vi dico che dovete accettare un’altra legge più giusta”.

Il bello veniva quando avrebbe dovuto convincerli sull’opportunità di denunziare quelli che s’erano macchiati di delitti e farli rientrare nella legalità. Vediamo con che cosa. Col denunciare i nomi. “I nomi, da bravi, su!”. “Macchè!”. “Commissario” gli pareva che controreplicassero. “Noi non facciamo la spia, non ci sporchiamo”. E lui, col mantello rosso di Gesù, sfilandosi gli occhiali grandi, paziente, sarebbe sceso per i mandorli nella vallata e avrebbe da quelle zolle asciutte, con mano taumaturgica, divelto rivoli d’acqua dalle rocce, dai sassi asciutti e liberato un fiume d’acqua fresca: “Dissetatevi avete una gran sete”.

Tutti si chinavano con le mani a bere. Li avrebbe sfiorati col piede nudo nel sandalo. “ Ma attenti, a quale acqua  vi dissetate. Se non avete sete di quest’acqua…”.

Poi avrebbe aggiunto nuovamente, di colpo: “QUINTO: NON AMMAZZARE”.

I contadini di Sicilia hanno rifiutato l’applicazione del quinto comandamento e quindi in Sicilia continua a regnare la sete di giustizia, di cultura, di acqua, di donne.

La sete continua ancora oggi per via della uccisione di decine di sindacalisti, di socialisti, di comunisti di dirigenti cattolici per mano della mafia dei feudi, continua per l’uccisione di tanti giudici, operatori delle forze dell’ordine, imprenditori, politici per mano della nuova mafia di città e dei grandi traffici internazionali e quindi qui può tornare di attualità il concetto di irredimibilità di Tomasi di Lampedusa.

Del resto anche Russello crede poco al riscatto della Sicilia, se è costretto a dire che bisogna uscire per riuscire e l’uscita è amara perché l’emigrato all’estero rimane sempre un “destierro”, un disadattato, uno “straniero” e anche in Italia deve subire la discriminazione delle popolazioni del Nord che negli anni cinquanta e negli anni sessanta del secolo ventesimo, si lamentavano  perché  tutti i posti di comando delle regioni del nord venivano occupati dai meridionali.

E ai polentoni che odiano i terroni, Russello risponde in maniera sarcastica con la premessa al libro “Siciliani prepotenti” in cui immagina che un esercito di siciliani occupa l’Italia, che Palermo diventa capitale d’Italia e che tutte le forze dell’ordine, esercito, carabinieri, Questura, Prefettura, magistratura, non reagiscono perché comandate da gente del sud. Anche le donne non reagiscono perché tutti i loro mariti sono siciliani.

E i siciliani vanno all’occupazione dell’Europa facendo un viaggio inverso a quello che avevano fatto i Normanni, gli Svevi.

E agli stessi nordici che accusano i siciliani per la mafia, per il fatto che occupano tutti i loro posti di comando, Russello risponde “che la moltiplicazione delle ricchezze, il capitalismo, la potenza finanziaria del Nord contro la miseria del sud, è anch’essa, in una più vasta area di interessi privati socialmente giustificati, mafia”.

E qui, senza volere giustificare la Sicilia e i siciliani, le loro colpe, le loro occasioni perdute, il discorso diventerebbe troppo lungo per risalire all’occupazione piemontese e a tutto l’inganno che i siciliani subirono per le mancate promesse che dovevano realizzarsi con l’unità d’Italia. Ma questo discorso lo lasciamo alla intelligenza dei nostri lettori che certamente conoscono la storia e i romanzi di cui abbiamo sopra accennato.

Questo non vuole essere una giustificazione e Russello auspica che i siciliani trovino in loro la forza per uscire dalla crisi e per questo vorrebbe che venisse attuato il quinto comandamento e che la scuola avesse la forza e la capacità di rifare i siciliani.

Certo nella letteratura di Russello troviamo gli elementi della speranza e la indicazione delle strade che si devono intraprendere perché i siciliani diventino un popolo alla stregua di quelli di altre regioni più avanzate.

II^  PARTE

Ma il discorso sulla questione sociale in Russello è sempre presente in tutti i suoi libri e noi possiamo dare solamente un primo giudizio sul suo pensiero perché ci mancano, come detto, tanti altri libri che aspettano di vedere la luce e che certamente potranno illuminare altre idee, altre intuizioni dello scrittore di Favara.  Russello torna appunto alle questioni sociali con il libro  “La scure ai piedi dell’albero” del 1977 e che è stato pubblicato da Santi Quaranta con il titolo “Storia di Matteo”.

In questo libro, partendo dal suo paese natale Favara, fa una distinzione delle classi sociali e descrive con crudezza la fine tardiva, in Sicilia, della nobiltà terriera.

La società viene vista da Russello come un albero in cui le radici sono il popolo che sta sotto terra e che non si vede, i rami e le foglie il ceto medio e il tronco è la classe dirigente.

I figli del popolo sono “fumieri” cioè concime, ma il concime messo sotto terra farà nascere altre speranze e altre situazioni rivoluzionare che porteranno a cambiamenti profondi e radicali.

La classe dirigente  in Sicilia è ancora costituita stranamente dalla nobiltà feudale che aveva resistito a tutti i cambiamenti con la famosa teoria del”cambiar tutto per non cambiar nulla” di gattopardesca memoria.

A Favara la scena è dominata ancora dagli Scalìa, dagli Schirò, dai Faldella, dai Dulcetta. Poi ci sono “la categoria degli intellettuali, medici, avvocati, maestri, tutta in cappello. La classe artigianale. La lunga massa del popolino e del servitorame. Tutta in berrette e sciallo nero. Ultima la coda. Quella razza né in cielo né in terra, che il destino gli ha dato appena nome, non si capiva se fila d’uomini normali o se tanto idioti da splendere perfino d’intelligenza”.

Matteo, figlio bastardo di un nobile e di una popolana, è popolo, fumieri ma assisterà alla fine ingloriosa della nobiltà e sarà la scure che farà a pezzi i tronchi di una nobiltà  imbelle e priva di iniziative.

Il popolo non ha spazio e, se vuole fare studiare un figlio, lo può solo mandare in seminario per farsi prete o emigrare verso terre lontane verso le Americhe quella buona e quella “babba”, o deve stare a servizio dei ricchi. “ i ricchi essere, per privilegio di Dio, mandati al mondo per trovare nei poveri il servimento”.

Il popolo non ha intelligenza e neanche la deve alimentare. Le uova che i poveri raccattavano dalle loro galline dovevano servire ai ricchi: “così mi figuravo da una parte i signori che ne avevano bisogno, dall’altra, di là dai portoni i contadini nelle povere case che se ne disfacevano perché non dovevano averne bisogno per non alimentare nessuna intelligenza”. Certo non bisognava alimentare l’intelligenza dei poveri altrimenti poteva essere infranto l’equilibrio sociale che trovava forza anche nel Fascismo che, per combattere la mafia, mandava i carabinieri a rastrellare le campagne e mettere in galera qualche mafioso e tanti poveri braccianti che nulla avevano a che fare con la mafia o che investiva i propri soldi in una assurda campagna in Etiopia: “avete visto che col genio di far guerra, i disoccupati son partiti volontari”.

Ma “Volontari obbligatori”.

I nobili e i ricchi esultavano perché Mussolini andava a cercare un posto al sole dove scaricare “il fumiere” del sud ma il popolo incominciava a capire che “ piuttosto d’andare a far guerra di là del mare, meglio la battaglia di braccia nel nostro paese per coltivare la terra”.

Arrivano in quel momento le leggi razziali, la superiorità della razza ariana, il voler eliminare la diversità. Ma Russello dice che “La varietà è il perché della vita”, con gli innesti si cambiano le specie e se ne inventano di nuove e di diverse anche se la nobiltà non accetta ancora l’innesto tra una rosa nobile e un altro elemento di bassa natura. “La nobiltà della rosa tea non sopportava l’incrocio con una rosellina di campo, plebea, che non venisse a scadere la più sensibile qualità dell’innesto che è la sfumatura del colore”.

Ma quest’innesto è tecnicamente possibile e la società lo adotterà.

Nessuno mai avrebbe sognato che Obama potesse diventare il Presidente degli Stati Uniti d’America: ma il miracolo è avvenuto.

Il concime sotto terra comincia però a fermentare. In provincia di Agrigento ci sono le miniere di zolfo  quindi centinaia di zolfatari che stanno insieme e formano gruppo, che ogni tanto gridano per il pane quotidiano che non sia solo corpo di Cristo ma elemento di nutrizione per loro e per i figli: “Alla miniera, in piazza, s’è sentito un gran pianto. Non per i morti, ma per la paga. Sono arrivate a gridare: ‘il pane?”

“E hanno lasciato dirglielo?” affermano scandalizzati i nobili. “I carabinieri, la legge. Figuratevi se questo non è uno sciopero in pieno regime”…”Quando si arriva a gridare: il pane. Quando i carabinieri, le legge, glielo hanno fatto gridare e restano lì impotenti…”

Per fortuna “che del pane ora tutti parlano come del necessario. E senza umano rispetto. E non come del superfluo. E non per dire con chi ce l’ha: Hic manducamus et bibemus, hic coronamus rosis caput nostrum, quoniam cras moriemur”.

Qui Russello capisce che tutto sta per esplodere anche se nella deflagrazione ci sono elementi  che avranno conseguenze negative nello sviluppo futuro della nostra società.

C’è stato un primo accenno del Fascismo alla lotta al latifondo e questo aveva inquietato non poco la nobiltà terriera siciliana, ma ora c’è l’esplosione della guerra. Arrivano gli americani e arrivano accompagnati dai mafiosi del luogo Don Genco Russo, Don Calogero Vizzini, Don Damiano Lumia, Don Vito Genovese. “Vergogna dell’America, scrive Russello, prima ancora che nostra, d’essersi fatta offrire l’isola solo in questo modo sul piatto d’argento, coi piedi allungati sui cofani delle camionette e in nessun altro modo cruento”.

Ma gli americani arrivano anche con i nipoti dei vecchi emigrati, portano una ventata nuova che non si può arrestare, portano la nuova musica, i Jeans, la gomma da masticare, la democrazia e quindi ecco gli scioperi degli zolfatari e dei contadini che vogliono nuovi salari

Si discute di riforma agraria “l’espropriazione del latifondo e la sua suddivisione in piccole e medie proprietà”…  “sulla concessione di più equi contratti d’affitto ai mezzadri, sulla concessione di più alti salari agli zolfatari”. Insomma subentra il concetto rivoluzionario “ che la terra vada a chi la coltiva”. I contadini “chiedono un lembo di terra per piantarci un po’ di cibo, amicizia, gioia”.

Tutto sembra andare in fumo per la nobiltà che consuma la propria ricchezza nei circoli dei nobili, così ben descritti da Antonio Castelli. Il gioco d’azzardo e il fumo della sigaretta sono la metafora della dissoluzione di una casta dura a morire. “lasciare andare tutto in fumo e la boccata ironica della sigaretta trovava in me una complice simpatia nel disegno di scompiglio d’ogni disumano possesso che l’uomo ha preteso sempre sulle cose liberamente create”.

I beni dei nobili o vengono espropriati o pignorati per debiti di gioco e di altra natura.

Muore così la nobiltà feudale, lascia i palazzi e le ville che ancora decadono e si trasferisce nella grandi città per mimetizzarsi, magari per riciclarsi, al contatto della mafia dei palazzinari, per diventare centro dello scempio edilizio, nerbo della burocrazia regionale che ha contribuito al mancato sviluppo di questa terra. Ma questo è un altro discorso che Russello non ha esaminato e che spetta ad altri approfondire.

Matteo il servo, figlio illegittimo di un nobile, dopo avere servito in tutte le famiglie nobili del paese, prende il nome vero del padre e diventa un Faldella, si consuma in un amore mai consumato ma altamente “nobile” e mentre nel calesse accompagna Maristella divenuta “Donna Maria” riflette:

“Lungo il ritorno pensavo a quell’ascesa d’una contabilità fallimentare, in cui mi sentivo  anch’io  curatore, come a quella di un maligno che sfronda l’albero per farlo cadere meglio dal di dentro, con la scure, taglia pezzo per pezzo, fogli, rami, radici.

Agli altri pensavo, che si prenderanno la terra e la faranno sì fruttare meglio, ma che entreranno con lo stesso passo di padroni”.

Agrigento,lì 14.5.2010

Gaspare Agnello

 

CONCLUSIONI

L’esame così scrupoloso dell’impegno sociale nell’opera letteraria di Antonio Russello ci porta a tentare alcune considerazione su questo scrittore che si è forgiato nel crogiolo della cultura meridionale ma che ha avuto modo di confrontarsi con le tematiche del Nord dell’Italia e che quindi ha potuto verificare le contraddizioni di un paese che il Risorgimento ha unito materialmente e fisicamente ma che è rimasto sempre diviso sul piano economico e anche, sotto certi aspetti, culturali.

Intanto risulta chiaro che Russello non è stato uno scrittore impegnato nel senso che noi tutti diamo a questa definizione e cioè non è stato un polemista, come lo è stato Sciascia o Pasolini, non è stato un presenzialista ma si è ritirato sulla “luna” per osservare la realtà del mondo e raccontarla alle future generazioni. Dalla luna, come si evince dalla sua opera teatrale “Racconto dalla luna” Russello osserva gli uomini che si combattono con guerre fratricide, che inquinano e quindi distruggono la bellezza del mondo e attraverso la sua opera letteraria osserva il mondo che lo circonda, lo analizza, ne disvela i mali e tenta di suggerire soluzioni possibili e questo lo fa con grande sofferenza personale perché gli può causare inimicizie dovute a una certa incomprensione della sua opera.

I compaesani di Russello e i siciliani tutti potrebbero adombrarsi per il fatto che il Cristo non abbia voluto scegliere la Sicilia come terra per la sua nascita però Russello, quando il Cristo si imbarca a San Leone per la Palestina, dove il Padre lo farà nascere, si gira a guardare questa terra meravigliosa e gli fa dire “Peccato, peccato”. Queste sono certamente le considerazioni che il nostro autore faceva ogni volta che veniva a passare le sue ferie nell’agrigentino e doveva constatare che la Sicilia non riusciva a trovare la via del riscatto  come l’avevano trovato i veneti che da popolo di contadini e di emigranti si erano trasformati in un popolo industrioso conquistando un tenore di vita tra i più alti d’Europa sotto il profilo economico ma anche sotto il profilo della organizzazione della vita. E Russello se ne fa un problema tant’è che nel discorso della Rupe Atenea rivolto ai contadini e agli zolfatari della Sicilia, propone ad essi di dissetarli con un’acqua diversa; ma pone loro una “conditio sine qua non”: quinto non ammazzare.

I siciliani sono restii a volere accettare questo comandamento e quindi ancora oggi hanno sete di giustizia, di cultura, di acqua, di donne e continuano ad attuare una faida terribile tra i mafiosi, ad ammazzare giudici, uomini delle forze dell’ordine, sindacalisti ed politici impegnati a dare ai siciliani  “un’acqua diversa”.

Si rende conto però che vi sono anche responsabilità delle forze di governo centrale che poco hanno fatto per creare le condizioni di sviluppo di questo popolo, usando termini pesanti allorquando definisce “mafiosi” certi comportamenti che il paese ha avuto contro il meridione che da solo non ce la poteva fare ad uscire da una situazione di sottosviluppo che ha radici profonde anche nel modo ingiusto con cui si è realizzata l’annessione della Sicilia al regno di Piemonte, con un prezzo sociale altissimo in termini di espoliazione, di imposizioni ai siciliani di leggi assurde e terribili come la leva militare lunga quattro anni (una vita), di lontananza del potere.

Russello ha constato che tutto ciò ha portato al fenomeno della emigrazione, prima in terre e continenti lontani e sconosciuti con drammi familiari terribili e poi nel nord d’Italia e d’Europa dove i nostri lavoratori andarono in cambio di un sacco di carbone.

Antonio Russello, anche lui emigrato, subì l’onda di un certo antimeridionalismo tipico degli anni cinquanta e sessanta che accusava i siciliani di occupare tutti i posti di comando nel Nord dell’Italia e di togliere lavoro agli operai di quelle terre. La realtà è stata che l’emigrazione dei meridionali nel Nord del Paese ha consentito il cosiddetto boom economico e che gli intellettuali siciliani e meridionali , con la loro cultura, la loro preparazione intellettuale, hanno consentito che una zona di contadini si trasformasse in una zona più evoluta sotto tutti gli aspetti.

Russello ebbe modo di vedere il sorgere del leghismo e del male che questo fenomeno avrebbe portato all’Italia che, invece di continuare il processo di unificazione, imbocca la strada della divisione e della secessione.

E a questa forma di razzismo subdolo, lo scrittore di Favara, reagisce in maniera ironica con la “Premessa” al libro “Siciliani prepotenti” in cui immagina che i siciliani occupino, “manu militari”, il Nord, che dichiarino Palermo capitale d’Italia e che si preparino ad occupare tutta l’Europa.

Come si vede nulla gli è sfuggito dei fatti sociali del suo tempo. Anche l’uccisione di Aldo Moro fu occasione di riflessione per il nostro scrittore che, in quella occasione scrisse, “Lo sfascismo” nel quale esamina tutti i delitti politici in Italia  da Moro a Giulio Cesare con una carrellata storica alla rovescia.

Ed a proposito di sfascismo dobbiamo dire che Russello è stato un antifascista che rifiutò le leggi razziali, le campagne d’Africa che tolsero al nostro paese risorse che potevano e dovevano essere impegnate per un piano di riscatto del mezzogiorno che avrebbe trainato il nostro paese in una spirale di sviluppo economico certamente diverso da quello in cui lo condusse il fascismo con le campagne d’Africa, con le leggi razziali, con la guerra.

Antifascista, ma anche anticomunista è stato Russello. Al suo amico Salvatore Lana che  gli chiedeva per chi votasse  ebbe a dire che certamente non avrebbe potuto votare per i fascisti, ne tanto meno per i comunisti e che avrebbe preferito votare per i socialisti. Ma questo non lo poteva fare perché i socialisti si erano alleati con i comunisti con il famigerato patto di unità d’azione. E allora era costretto, suo malgrado, a votare Democrazia Cristiana.

Se vogliamo dare un nome alla ideologia dello scrittore di Favara potremmo dire che la sua è stata una concezione cristiano-sociale.

Queste considerazioni abbiamo voluto fare sullo scrittore Russello, che ci vengono dalla lettura delle sue opere e dalle poche informazioni personali che abbiamo potuto raccogliere. Speriamo,  se ne avremo il tempo, che questi nostre riflessioni si possano integrare, alla luce delle opere inedite di cui speriamo di venire a conoscenza.

Agrigento,lì 16.5.2010

Gaspare Agnello