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GINO SARTORI

IL DISTRIBUTORE AUTOMATICO DEL PANE

Storie, personaggi

E morti irrisolte nella Val d’Astico

Dedico questo scritto a

RENZO MADDALENA

Che mi ha condotto lungo le

Montagne venete facendomene

Innamorare. Renzo non ti

Dimenticherà mai.

Gino Sartori dà alle stampe il suo primo romanzo e mette subito le mani avanti scrivendo: “Non sono uno scrittore, le cose più lunghe che ho scritto fino ad ora sono stati i temi alle lezioni di italiano e qualche (piccola) tesina a scuola e sto parlando di molti anni fa”.

Forse per non dimenticare, Sartori ha scritto il suo primo libro anzi “un romanzo, come scrive Maurizio Boschiero, che corre tra le strade del paese e come un vento vortica tra le case portando con sé storie e ricordi, fatti ricostruiti e inventati ma sempre con il preciso intento di consegnare alla storia un po’ del suo Paese”.

Il libro vorrebbe essere un thriller? Se l’autore avesse avuto in testa questa intenzione allora diciamo subito che ci troviamo di fronte a un vero e proprio flop perché il libro è un’altra cosa “Un filò”, anche se le storie oscure che avvengono attorno al distributore del pane tengono viva l’attenzione del lettore che vuole sapere.

Paola Toldo scrive nella sua prefazione:” Passato e presente, verità e mistero natura e tecnologia si mescolano qui senza tregua grazie a un linguaggio diretto e a repentini cambi di registro che ricalcano lo stile narrativo tipico dei filò dei nostri nonni”.

La storia prende le mosse dall’istallazione a San Pietro Valdastico di un distributore automatico del pane e dalla vita del maestro Bepi, che ogni mattina va a prendere la sua ciopéta e assiste a strani fatti che si verificano attorno a quella macchinetta infernale che ha sostituito le vecchie botteghe che sono costrette a chiudere battenti per via dello spopolamento dei nostri antichi paesi.

Il distributore automatico del pane, scrive Paola Toldo, dovrebbe semplificare la vita degli abitanti, ma non sarà così, lo si intuisce già nel primo capitolo, dove esordisce qualche elemento controverso che fa riaffiorare sottili rivalità in un momento di apparente armonia e convivialità. Il nuovo marchingegno diventa allora metafora, lungo tutto il romanzo, delle contraddizioni portate da una modernità giunta troppo in fretta in un paese di fondovalle”.

Un paese, una valle, Pedescala e i paesi viciniori che sono lo scenario struggente e affascinante di questa storia che è storia di una cultura contadina, storia di emigrazione, di guerre, di eccidi, di cambiamenti repentini, di un progresso che arriva pure nelle valli per sconvolgerne le antiche abitudini che sono destinate a morire, vittime della globalizzazione. Non a caso Bepi sostiene che “soprannomi e dialetto veneto dovrebbero essere conservati come patrimonio dell’umanità”. Non solo il dialetto veneto ma tutti i dialetti che sono frutto di sedimentazioni di storie millenarie della nostra Italia che ha subito influenze di tantissimi popoli e lingue.

L’autore non credo abbia rimpianti di un tempo perduto però il suo racconto diventa più bello, quasi magico quando parla del tempo antico.

“Il filò era una veglia tipica delle serate invernali, veniva in quei tempi praticata nelle stalle dove si raccoglievano tutti i familiari e talora i vicini; fatta soprattutto di lavori tranquilli, di dialoghi pacati e di rievocazioni, costituiva il momento di maggiore importanza per la trasmissione orale della cultura. Le serate d’inverno si trascorrevano nel tepore delle stalle riscaldati dal fiato degli animali alla luce del canfin, che era una lampada a petrolio di varie forme che si collocava nel punto più adatto alla circostanza regolandone il supporto…I giovani erano affascinati in particolar modo dalle storie delle anguàne, creature simili a ninfe legate all’acqua di cui erano protettrici. Erano anche costodi dei monti e delle valli”.

Sartori vuole mantenere viva l’idea del passato perché, come lui stesso afferma “nelle popolazioni di queste valli è radicata l’idea di mantener vivi i ricordi del passato; senza passato sarà difficile capire il presente, ma in particolar modo costruire un futuro”.

“Ho scelto Venezia per la memoria del futuro” scrive Antonio Russello, scrittore siculo-veneto nel suo bellissimo libro “Venezia zero” ripubblicato con il titolo “La danza delle acque. A Venezia”.

La memoria per costruire il futuro, un futuro difficile perché dopo il boom, dopo la distruzione del bucolico paesaggio veneto con la industrializzazione selvaggia, ora c’è la recessione, la crisi, la cassa integrazione e “Purtroppo Bepi non vede più quella felicità negli occhi dei giovani d’oggi come vedeva nei ragazzi di un tempo che uscivano dalla bottega di Gildo”.

Da quelle valli sono passate le armate tedesche che hanno messo a ferro e fuoco Pedescala, c’è stata la resistenza con le sue luci e le sue ombre, c’è stata l’americanizzazione del paese che viene conquistato dal Rock, del Jazz e dalla cultura di New Orleans dove Bepi, dopo la sua scomparsa, troverà rifugio con la sua Angàna.

E oggi si accarezza un sogno d’isolamento, di indipendentismo leghista e si va a prendere l’acqua alle sorgenti del Po come fanno gli abitanti delle valli dell’Astico che vanno a prendere l’acqua alle sorgenti del loro fiume per cucinare il gatto che con quell’acqua acquista maggiore sapore, come il caffè di Napoli che, per essere buono, deve essere fatto con l’acqua del Serino. Tutto il mondo è paese.

Ma il sogno leghista è fuori dal mondo e serve solo a mettere in evidenza un conservatorismo e una velata forma di “razzismo” che verranno travolti dalla realtà di una società multietnica e questo l’autore lo capisce perfettamente quando afferma testualmente “purtroppo in cuor suo capisce che nella lotta sui ricordi subirà una sconfitta e tutto questo patrimonio andrà perso a causa di una cultura multietnica che sta avanzando in modo inesorabile”.

E quando l’uomo sarà sradicato dal proprio habitat per vivere nelle grandi metropoli sarà sempre, come dice Sciascia, un ‘destierro’ e ricorderà il profumo “ che emanava il capriolo: profumo di libertà, di resina di pini, di foglie umide di sottobosco, di fragoline, del profumo penetrante di ciclamini e di frescura di ruscelli”.

Bepi, il maestro di campagna, l’uomo che ingravidava le donne con lo sguardo come i personaggi di Brancati, l’uomo della confraternita del ‘gato’, come tutti noi, deve partire per il lungo viaggio, verso New Orleans o verso chissà dove:

“Iniziavano ad arrivare le prime gocce di pioggia. Bepi stancamente aprì la porta di casa e portò fuori due grosse valigie, posò i bagagli per terra e richiuse la porta dietro le sue spalle.

Mentre i suoi pensieri viaggiavano, sentì una grossa mano sulla spalla che lo ridestò, e una voce con un forte accento americano gli chiese se fosse pronto per il viaggio.

Già da qualche minuto una macchina nera era arrivata e stava aspettando a luci spente.

Il signore prese le due pesanti valige e le caricò nel grande bagagliaio.

Bepi, ormai ridestatosi, con la morte nel cuore salì nella macchina, che partì misteriosamente e silenziosamente com’era arrivata.

Il tutto successe in pochi minuti e nessun abitante di Pedescala se ne accorse”.

Queste sono le cose del libro di Gino Sartori che più mi hanno colpito e mi pongo una domanda per sapere se il libro sia un’opera riuscita o meno e mi sovviene quanto mi disse Leonardo Sciascia quando gli chiesi come si fa a capire se un libro è buono o meno. Sciascia con molta semplicità mi disse che se il libro ti piace è buono altrimenti lo abbandoni.

Io il libro di Sartori l’ho letto con un certo interesse e ne ho tratto tantissime considerazioni che rassegno ai miei lettori quindi posso trarre la conclusione che il libro è buono.

Quante cose mi tornano alla mente con la lettura di questo libro quante cose mi riportano allo scrittore siculo-veneto Antonio Russello che, partito dalla Favara di Agrigento, sposò una friulana e vagò per il veneto dove insegno per tutta la vita fino alla morte avvenuta a Castelfranco Veneto nel 2001.

La parlata veneta di Sartori mi ricordano le osservazioni sulla lingua veneta, di Russello il quale parla della “parole acquatiche, dove le vocali s’aprivano di più sulle consonanti: “ tuto el mondo se moe el vive, i osei i canta, le aquile le svola, eco che i cani i baia”, mentre il dialetto di Sicilia è tutto consonanti, tutto robusto, forte, con i verbi messi all’ultimo della frase, come radici che reggessero in alto le proposizioni che sono il tronco, i rami e le foglie.

Nel veneto il gatto perde una T e diventa ‘el gato’, il pane diventa ‘ciopèta’, la mamma perde una M e diventa ‘mama’.

E poi i soprannomi di cui parla Gino Sartori sono i soprannomi di Venezia di cui parla Russello nel suo libro “Finestre sul Canal Grande”, sono i soprannomi che si usano in Sicilia. In fondo forse Sicilia e Veneto hanno tantissime cose in comune quali la storia contadina, la miseria antica, il dramma dell’emigrazione che ha colpito le due regioni che hanno figli sparsi in tutto il mondo.

“Le scarse risorse del posto, scrive Maurizio Boschiero, hanno costretto all’emigrazione le forze giovani sottraendo al paese la gioventù pèiù vigorosa.

Gli abitanti di Valdastico si spinsero in tutto il mondo per cercare nei paesi lontani una nuova vita e una speranza. Francia, Belgio, Germania e ancora Australia, America, Argentina…

Senza soluzione di spazio e di tempo.

In Brasile alla fine dell’800 una decina di famiglie fondò un paese che si chiama San Pedro Encantado, sul Rio Grande Du Sol.

Storie di uomini, di viaggi, di speranza e di sofferenza, un lento esodo che ha lasciato il paese sfinito, con i vecchi seduti sui loro anni e sui loro ricordi ad aspettare…aspettare, guardando giù nella valle dove la strada costeggia l’Astico”.

Tornando ai soprannomi occorre parlare della storia di Chioggia dove all’ufficio anagrafe i soprannomi vengono ufficializzati e scritti accanto al vero cognome per distinguere i vari ceppi dello stesso cognome; potrebbe essere simile alla storia del mio paese dove ci siamo tante famiglie chiamate Agnello ma che si distinguono in Agnello capputtuni, Agnello piriddu, Agnello di viciddrù, Agnello pittinè, Agnello stansillà e così via.

E il vostro biroccio non è simile al carretto di mio padre con il quale intratteneva scambi commerciali tra il mio paese e Canicattì che era la Milano della zona?.

I capelli alla mascagna di Gianni non erano la mia mascagna di quando ero giovane di bella speranza?

Sicilia e Veneto paesi di frontiera con grandi tradizioni culturali e commerciali, cuore del Mediterraneo, regioni in cui si sono sviluppate grandi culture che hanno dato all’Italia grandi letterati, grandi artisti.

E infine c’è da parlare dei disegni di Sofia Terzo che sono parte attiva del libro e lo integrano. Boschiero è stato attratto dall’acquarello della copertina mentre io sono stato colpito dai due innamorati che sono alla fontana e che si guardano con un sorriso che dice tutto.

Questa immagine mi ricorda il film russo Sadko che vinse il leone d’oro a Venezia  e che ha tanta attinenza con il libro di Gino sartori.

Sadko vivea in un paese russo come potrebbe essere Pedescala e volle andare via in cerca della felicità.

Varcò mari e monti, viaggiò in lungo e in largo, cercò il vaso di Pandora ma non trovò la felicità che gli ‘fuggiva innante’, come disse Alfieri.

Decise di tornare al suo paese e alla fontana trovò la ragazza bionda, con la treccina che andava a prendere l’acqua. La guardò, si guardarono, si sorrisero e Sadko capì che la felicità che lui cercava in giro per il mondo, era nel suo paese, nella ragazza bionda con la treccina svolazzante.

Coloro che sono andati via dai nostri paesi vivono il dramma della nostalgia e restano sempre legati a Pedescala, a San Pietro Valdastico, a Grotte, come è stato per mio fratello morto in Canada e Gino Sartori, con il suo libro, ha voluto conservare la memoria di questi centri, che è la memoria del nostro passato, del nostro futuro.

Agli uomini che sono restati e a quelli che sono andati via, Gino Sartori dice che la vita è come la ‘Cingella’, una stradella di montagna che, dopo una salita, regala un tratto di piano o una discesa: è forse la metafora della speranza che nella vita dopo un periodo buio più o meno lungo, spunti la luce, la luce che illumina le nostri valli verdi e ubertose, la nostra Sicilia piena di sole e di mare.

Agrigento, lì 17. 7. 2015

 

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