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PREFAZIONE  AL LIBRO DI ANTONIO ARNONE “ZOLFO, ECONOMIA E SOCIETA’ IN CONTRA CIAVOLOTTA”

Edito dalla Pro Loco Castello – Favara

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La storia delle miniere di zolfo in Sicilia è antica quanto il mondo se è vero, come è vero, che l’archeologo professore Giuseppe Castellana ha trovato tracce di zolfo e di opere connesse all’utilizzo dello zolfo in scavi riferentesi  alla preistoria. E attorno allo zolfo è nata un’epopea letteraria, politica, sindacale che ha segnato la formazione della classe operaia in Sicilia e una coscienza del lavoro in gruppo, che faceva dello zolfataro un cittadino che si poneva un gradino più su dei contadini che vivevano una condizione economica molto più misera. Infatti dalle nostre parti si cantava una canzone che diceva “surfararu lu vugliu ca mi fa la vistina di sita”. In verità questo detto valeva anche per i carrettieri.

La storia delle zolfare e la vita dei minatori hanno ispirato la grande letteratura siciliana degli ultimi secoli.

Pirandello visse in prima persona la vicenda delle miniere, come il poeta Alessio Di Giovanni e Leonardo Sciascia il cui padre era un capomastro e il cui fratello, perito minerario, si è suicidato in una miniera.

Ma non solo loro sono stati toccati dall’epopea dello zolfo. Tutti gli scrittori e poeti siciliani dell’ottocento e del novecento non poterono fare a meno di aggiungersi al coro di questa grande epopea che interessò le province di Enna, Caltanissetta e Agrigento le cui miniere di maggior rilievo si trovavano a Favara, a Casteltermini, a Grotte, a Racalmuto.

Favara aveva tutto un grande bacino che veniva bucato in ogni dove per dare vita a un complesso minerario di grande rilevanza economica e sociale.

Le miniere di contrada Ciavolotta e la miniera Lucia erano il nerbo principale della produzione mineraria agrigentina e quindi fa bene Antonio Arnone a dedicare una parte della sua vita allo studio di questo gigantesco fenomeno con due libri: “Solfare e Mafia” edito nel 2002 dalla casa editrice Medinova e “Storie di zolfare”-“Lucia,Ciavolotta Monteleone e Deli” pubblicato dalla Pro Loco Castello di Favara.

Ora ritorna sull’argomento con un nuovo testo “Zolfo, economia e società in contrada Ciavoltta”, integrando i due precedenti lavori con notizie importanti sulla vita di quelle miniere, sui passaggi di proprietà, sulle famiglie nobiliari che si accaparrarono lo sfruttamento dei giacimenti di zolfo traendone lucrosi vantaggi quando lo zolfo aveva un buon mercato e addossando le perdite alla mano pubblica quando il mercato fu invaso dallo zolfo americano che, estratto col metodo Fresh, veniva a costare molto di meno.

 

Dal libro emerge la drammatica situazione dei carusi che venivano venduti al picconieri col metodo di “lu succursu muortu” e di morte, appunto, si trattava perché il bambino veniva letteralmente venduto e qualche volta giocato nei tavoli di gioco d’azzardo durante le feste natalizie.

E l’Autore fa rilevare come i ben pensanti si ribellarono alla legge votata dal parlamento italiano che elevava l’età dei ‘carusi’ da potere utilizzare nei lavori delle miniere

E a tal proposito Arnone scrive: “desta meraviglia e sorpresa che pure il barone Antonio Mendola, uomo dotto e generoso benefattore, avesse mescolato, in quest’occasione, la propria voce  al coro delle proteste. Ecco alcuni passi di quanto egli scrive nel suo Diario: “La più parte dei (ragazzi) a 12 anni finisce le scuole elementari. Che cosa fare poi?  Continuare a studiare? Ma dove e perché? Qui ( a Favara) mancano le scuole al di là delle elementari e poi, anche se ci sono, che cosa farebbe un fanciullo con un altro pizzico d’istruzione lasciato a metà? Le famiglie povere ricavano la loro sussistenza in gran parte dal lavoro dei fanciulli”.

E continua ancora l’Autore: “Tanta comprensione andava invece ai picconieri, dei quali il barone ancora scrive: ‘Intanto i poveri picconieri senza carusi non potevano lavorare’….Essi ‘ avevano da due a cinque carusi. Ciò vuol dire che avevano acquistato ( si noti che acquistare è il verbo esatto) i carusi, pagando delle forti somme spesso da 200 a 400 lire di caparra morta’….’molti di questi carusi avevano già 12 o 13 anni’. Se poi a loro ‘ per le lunghe e irte scale, gli si accorciava la spina dorsale o gli si rendevano mostruose e nane le spalle’ la soluzione, sempre per il barone, qual era? Per ogni caruso si sarebbe dovuto decretare, con il parere del medico sanitario, il peso che avrebbe potuto reggere in relazione alla robustezza del proprio corpo. E non è finita. Dei sorveglianti avrebbero dovuto controllare di tanto in tanto l’esattezza del peso. Nella sua bontà il barone Antonio Mendola ( ammesso che potesse funzionare la catena dei controlli) non voleva riconoscere che per un fanciullo il solo salire e scendere per anni anche con le mani in tasca ( talvolta dalla tenera età di sei anni) i lunghi, irti, bui e malmessi gradini di una lunga scala di zolfara avrebbe comportato non solo la deformazione fisica, ma anche l’acquisizione di gravi malattie respiratorie”

Queste considerazioni e queste notizie che l’autore attinge dall’opera di Antinoro danno grande valore al libro che poi si sofferma a parlare degli scioperi e delle vere e proprie sommosse che si sono susseguite a Favara  e in tutto il circondario minerario per avere salari più dignitosi e per la sicurezza nel posto di lavoro visto che le miniere erano diventate le bare per decine e decine di minatori che morivano o per crolli o per il grisù.La descrizione degli scioperi parte dal 1880 fino agli anni sessanta del 1900 quando le miniere furono acquisite dall’Ente Minerario Siciliano.

Noto, nel libro, una lacuna e cioè il fatto che l’autore non si sofferma abbastanza sul movimento dei fasci dei lavoratori che furono costituiti anche a Favara. I minatori di Favara parteciparono al primo convegno dei minatori siciliani che si tenne a Grotte il 12 ottobre 1893 e mi sarebbe piaciuto che l’autore avesse fatto qualche ricerca più puntigliosa su detto sommovimento. Il 12 ottobre del 2013 Grotte, su mia sollecitazione, commemorò quella data con una grande manifestazione regionale.

Forse questa mancanza nasce dal fatto che a Favara i moti più significativi scoppiarono nel 1890, nel 1896 e a cavallo del 1940/50.

La miniera creò un ceto operaio che acquisì la coscienza di classe e che quindi si batteva per i propri diritti, mentre i padroni che sfruttavano le miniere “ a rapina”, non preoccupandosi della sicurezza, inveivano contro i minatori e li chiamavano sovversivi. In quel periodo si affermavano le leghe dei minatori, nasceva il Partito Socialista, esisteva una forte corrente anarchica e i carabinieri, nei loro rapporti, scrivevano alle autorità di Governo che i nobili erano per l’ordine costituito mentre gli zolfatari erano sovversivi.

Anche in questa vicenda, riporta il Professore Arnone, non manca il giudizio del barone Antonio Mendola il quale in occasione dello sciopero del 1906 scriveva che “la plebe agognava al saccheggio, a farsi regina per un giorno, nel regno del delitto e della rapina”. E ancora: “Ogni picconiere lucrava da cinque a sei lire al giorno e molti anche di più. Era una buona giornata….Erano incontentabili (questi zolfatai). Pareva che lo zolfo, ossia la mercede, fosse un pretesto e che la verità stava nella malvagia intenzione di saccheggiare promuovendo agglomerato di popolo e disordini”.

Questi erano i signori del tempo che, come afferma Antonio Russello, nel libro ‘Storia di Matteo’ , costruivano brefotrofi per i trovatelli, per ricoverarvi i figli spuri che andavano seminando nelle campagne con le donne che servivano nei loro possedimenti.

Il libro è veramente esaustivo e ha il pregio di elencare tutti gli incidenti che si verificarono nelle miniere di Favara e  elenca anche i nominativi delle vittime rendendo un servizio importante alla memoria dei posteri che non devono mai dimenticare i sacrifici che fecero i nostri nonni per il nostro benessere.

Ci dobbiamo ricordare tutti che veniamo dalla terra o dalle miniere e che quelle sono le nostre radici. Se ci spogliamo i nostri corpi forse odorano ancora o di terra o di zolfo o di sale e non dobbiamo vergognarci di queste nobili origini.

L’Autore dedica qualche pagina alla religiosità dei minatori che erano devoti di San Giuseppe e di Maria e che poi acquisirono una certa devozione per Santa Barbara e a tal proposito è bello il capitolo dedicato alla statua di Santa Barbara che ancora dovrebbe essere in un calcherone nella piana.

In questo excursus sociologico non poteva mancare un’attenzione particolare al fenomeno mafioso che allignò in questi ambienti e certamente non per responsabilità dei minatori ma per responsabilità di chi comandava e aveva esigenza di creare un ordine mafioso  cui tutti dovevano sottostare specie gli operai e i carusi.

Tutta questa vicenda amara e drammatica non poteva non interessare il grande scrittore di Favara Antonio Russello il cui romanzo “La luna si mangia i morti” odora pienamente di zolfo.

Russello descrive ‘la Piana’ con grande struggimento:” Giugiù mi disse che c’era stato a San Leone e anche alle miniere, perché tutta la striscia di terra a mare  e anche tutta la “Piana” fino là era zona ricca di zolfo sotto e d’alberi sopra, tutt’aperta in buche con pietre gialle come ossa di fuori che sbucavano e odore di zolfo in aria; e Giugiù facendo il pugno di terra e sfarinando in aria: Boiacane – disse, – quanti si sono fatti ricchi con le miniere!”

E ancora, Antonio Russello scrive: “Come si diventa ricchi? – feci.

Giugiù m’additò una buca aperta nella viva roccia sott’i mandorli, vicina, e  mi disse così, aprendo una buca come questa e delle volte si trovano solo lumache, alle volte un filone d’oro. Così diventarono ricchi quelli della villa (Fanara).

Russello parla delle disgrazie nelle miniere e del banditore Paolino che, col tamburo, avvisava in piazza che: “Disgrazia è accaduta alla miniera. Chi delle donne avi mariti che travagliano andassero a vedere”e del chiacchiericcio dei nobili seduti al circolo che si mostrano indignati perché le forze dell’ordine consentono alle plebi di protestare in piazza per ”il pane”.

E infine anche la malavita e la mafia, che orbitava attorno alle miniere, è oggetto del libro di Russello : “Come lo lavorano nelle miniere lo zolfo? – gli chiesi, perché mi piacevano tutte quelle cose che sapeva. E mi disse come, che si brucia nei forni, lo zolfo cola come oro nella fornace e dalle forme esce in pani che si vendono un occhio della testa.

E mi indicò dei mucchi lontani, i forni.

Sai che ce n’hanno bruciati vivi anche lì ? – mi disse. – Di banditi dico che i compagni per vendetta uccidevano a tradimento e li buttavano dentro, e non se ne trovava la traccia, non se ne sapeva più nulla”.

E anche Verdone, il bandito della “Piana”, il protagonista della storia di Russello morì così.

Al figlio avevano detto che se l’era mangiato la luna “Invece mia madre, continuando, mi disse che non era così, il cadavere l’avevano invece chiuso dentro un sacco e portato in uno di quei forni vicini, dove bruciava lo zolfo e colava nella fornace, glie l’infilarono e, quando tutto fu arso e sbriciolato, la cenere la dispersero al vento della Piana, nel sole, che non si trovò più nulla”.

A questo punto voglio dire al lettore di questo libro che il Professore Antonio Arnone mi aveva chiesto una prefazione, forse anche breve, ma la lettura mi ha suscitato tanti sentimenti e mi ha riportato alla mia prima giovinezza quando ancora ragazzo di sedici anni, frequentavo la Camera del Lavoro di Grotte e quando divenni Vice Sindaco nel 1956 e impiegai gran parte del mio tempo con le lotte dei minatori a cui non veniva regolarmente corrisposto il salario. Se un libro suscita tanti sentimenti vuol dire che ha raggiunto il suo scopo perché ha toccato il cuore e l’intelligenza del lettore.

Se poi si aggiunge che in tutte le nostre famiglie c’è stato un “TURILLO” che ha tentato la fortuna nel proprio paese e che è stato costretto a emigrare in terra straniera da cui non è più tornato, allora la storia diventa drammatica e incide sulle nostri carni di fratelli di emigrati a “gran distinu”.

La piana oggi è silenziosa, non c’è più il cavallo bianco di Verdone, ma le sue ceneri ancora volano nell’aria. Rimangono i libri di Antonio Arnone e di altri studiosi che hanno cantato l’epopea dei nostri nonni, a futura memoria.

Agrigento, lì 11.3.2015

Gaspare Agnello