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SALVATORE FALZONE

“FUGA VERSO LA CROCE”

La missione di Francesco Spoto in Congo

Ed. San Paolo

Io conosco lo scrittore Salvatore Falzone per il suo libro “Piccola Atene” che è di sapore sciasciano e che, al premio letterario Racalmare Leonardo Sciascia del 2014, ha dovuto soccombere a l rumore di una polemica che non gli apparteneva. Certamente, a mio avviso, Falzone è il vincitore morale di quella travagliata edizione del premio.

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Ora incontro un altro Falzone, quello che si interessa della vita dei santi della chiesa cattolica. Falzone ha scritto  su Pina Suriano e il libro “La donna che nacque due volte. Vita di Vincenzina Cusmano” e ora torna in libreria con “Fuga verso la croce” ‘La missione di Francesco Spoto in Congo’  San Paolo editore.

Questo nuovo libro è certamente agiografico però ha la forza letteraria della narrazione di un fatto eroico e quindi assume la dimensione del romanzo anche per lo stile dell’autore e per quanto di inventiva c’è nella ricostruzione dei fatti storici.

L’Autore ci vuole narrare l’eroismo umile e suo malgrado, del prete di Raffadali Fancesco Spoto che, a soli 35 anni, diventa generale della congregazione del Boccone del povero fondata da Giacomo Cusmano e che muore nel Congo dove si reca per visitare la sua missione e per dare conforto ai suoi confratelli che, in quella terra, portavano la parola del vangelo, la cultura, la sanità. Francesco Spoto era consapevole delle difficoltà che i suoi confratelli vivevano nel Congo, conosceva la situazione di pericolo che nasceva da una guerra civile fratricida nella quale si dava la caccia ai bianchi e ai missionari, era stato ammonito da tanti  suoi amici a non rischiare la propria vita. Poteva restarsene a Palermo dove la sua presenza era assolutamente necessaria per la vita e lo sviluppo della sua Congregazione.

Ma un uomo di fede, un missionario della parola di Dio, non poteva restare dietro una scrivania mentre i suoi confratelli rischiavano la vita ogni giorno e, senza titubanza va, verso il suo destino e opera la sua “Fuga verso la croce” come ha fatto il Cristo che è venuto al mondo sapendo che lo aspettava la croce attraverso cui redimere l’umanità.

Francesco Spoto va verso la sua croce sapendo che dal sacrificio, dal martirio nascono i frutti auspicati dal vangelo.

E lì si compie il suo dramma: i Simba non gli lasciano scampo e lo massacrano di botte che lo portano alla morte.

Però il “Superiore” è andato a seminare, ha visto la sua missione, ha preso contatto con un mondo a lui sconosciuto, ha contattato un’umanità nuova  che è capace di rivitalizzare la fede e che oggi ha contribuito a riempire i nostri altari di preti di colore.

Francesco Spoto non è andato in Congo per cercare il martirio, ha voluto solamente fare il suo dovere, quello che gli imponeva l’abito talare. Non si è dato ai Simba per essere immolato, ha cercato con tutti i mezzi di fuggire per salvare la sua vita e in ciò è stato aiutato da tutti i suoi confratelli e dai fedeli africani che hanno rischiato la vita per salvarlo e qualcuno addirittura ha sacrificato la sua vita.

Non ’è riuscito a salvarsi forse perché così era stato scritto o perché la fede aveva bisogno di testimonianze e, a quaranta anni, Francesco Spoto muore per salire sugli altari come esempio di una fede salda e forte che  oggi  vacilla sotto i colpi della corruzione che tocca anche i sacri palazzi.

Questa in breve la storia del martirio di Francesco Spoto raccontata magistralmente da Salvatore Falzone.

Il critico si chiede di sapere quale è la storia vera e quale il romanzo inventato dall’Autore. Io ho posto la domanda a Falzone il quale mi ha detto che la storia è tutta reale e trova le sue fonti  in un diario scritto a matita da padre Spoto durante il suo soggiorno in Congo e negli atti voluminosi del processo di beatificazione che lo stesso ha pazientemente consultato. Quindi niente di inventato su questa storia eroica, ma in ogni opera letteraria l’autore mette sempre del suo per rendere il racconto godibile e per creare una giusta cornice alla storia.

La cosa che più mi ha colpito è la capacità descrittiva dell’autore. Ogni capitolo inizia con una fantastica descrizione.

Ecco ne voglio citare alcune per dare il senso della bellezza che il libro assume con l’inventiva di Falzone: “Il notaio infilò gli occhiali, sollevò il foglio dal ripiano di vetro su cui aleggiava un po’ di cenere, tirò col naso e, aggrondando la fronte, si schiarì il vocione. Seduta in punta di sedia, quasi stesse per alzarsi, la donna non staccava gli occhi dal fratello sacerdote; teneva le mani raccolte sul grembo, e le dita si articolavano in brevi scatti ripetitivi, come lavorando d’uncinetto”…

“….Il prete ricontò i giorni che mancavano alla partenza senza distogliere lo sguardo dalle zampe della libreria che copriva una parete dello studio. Erano appuntite, e la luce della lampada da tavolo, il cui stelo traforato gli ricordava un incensiere, proiettava riflessi sulle falangi di legno”…

“….Il notaio si accese una sigaretta e continuò: ‘Situato in Raffadali, contrada Serra…’

Il suono di quel nome divenne all’istante molte cose insieme: la sagoma di un uomo curvo sull’orto abbagliato, un manico di zappa piantato sul terreno, dei tralci brillanti di vite, le foglioline degli ulivi controluce, quasi cristalline. Dalla Grande Guerra suo padre era tornato con la gamba sinistra anchilosata, e da allora ne aveva avuta una finta, ma su quel quadrato di campagna, alle porte del paese, aveva continuato a sudare fino all’ultimo. La gamba di legno era la prima cosa che gli saltava in mente quando pensava al padre. La seconda era la pietra scheggiata: il vecchio si dilettava a fare lo scalpellino, ripeteva che se fosse andato a scuola sarebbe diventato un vero scultore”.

E ancora una descrizione ad inizio di capitolo:

“L’odore della vegetazione imputridita avvolgeva i fuggiaschi come una nube. La luna si rifletteva sul fogliame bagnato, che restituiva  sparsi bagliori, e sui tronchi marciti disseminati lungo il sentiero. Come sempre, il brusio degli insetti era incessante. L’intera estensione boscosa sembrava permeata  da una costante, sinistra preghiera. Un rosario dilagante”….

“….Padre Francesco si sedette sulla  base di un tronco tagliato. Il rumore di Arua era già lontanissimo…Molti neri  che tornavano dalla caccia posarono per terra le lance, gli archi, le frecce, ordinatamente e gli chiesero di essere benedetti, inginocchiandosi e segnandosi sgraziatamente. Ne fu quasi sorpreso, chissà perché, e quando tracciò per aria un po’ di croci, gli parve che stesse compiendo quel gesto per la prima volta in vita sua. Poi gli indigeni accesero un falò e cominciarono a danzare. La terra era battuta senza tregua dai piedi nudi, ma con dolcezza, e dalle gambe dei danzatori salivano le onde del movimento fino al bacino, coperto da un perizoma di foglie, e di lì si propagavano lungo la colonna vertebrale fino alla nuca. Il prete toccò automaticamente la sua: non gli faceva più male. Guardava gli indigeni, le donne che danzavano con i bambini attaccati dietro la schiena,le loro pelli che sembravano cucite insieme…Sentì un moto di affetto e una sensazione antica che non provava da molto tempo, forse da quando era bambino e il fuoco bruciava gli asparagi secchi, lì alla serra, e si cantava tutti insieme, la mamma, papà, Giuseppe, Antonina…La danza sembrava non finire, ma dopo tre quarti d’ora un rumore cigolante ruppe l’incanto. Il ritmo ebbe un sussulto finale, prematuro e si spense”.

E in ultimo un’altra descrizione che ci riporta a Raffadali nel paese natale del Superiore, già morto:

“Raffadali, dicembre 1964

Frusciava il latino, cadenzato da duri accenti dialettali, e il fiato, mischiandosi  a un odore stagnante di verdure bollite, o forse di pere cotte, svaporava nella stanza quasi buia.

C’era uno scompenso in quel monotono bisbiglio, frazionato in due  fraseggi lamentosi. Il secondo – Sancta Maria mater Dei….-nasceva ogni volta dopo un istante di pausa, ed era come un’eco del primo, quasi un’antica, debolissima risonanza, che spirava sempre con una nota d’attesa. Più che dalla bocca, sembrava sprigionarsi dal basso, forse dall’estremità delle falangi incartapecorite che scorrevano incerte, dal grembo scuro, i granelli del rosario…

….Sul mobiletto, accanto alla radio, una cornice argentata inquadrava il mezzo busto di un giovane sacerdote, con la talare nera, il viso leggermente inclinato a sinistra, lo sguardo assorto, il colletto assai più bianco dello sfondo della fotografia, che da ogni lato appariva sfocata da un pulviscolo latteo, come se fosse stata scattata tra le nubi”.

Da questi brevi brani del libro ci si rende conto che l’opera di Salvatore Falzone non è solo agiografica come si conviene a un libro che parla di un uomo di fede in procinto di salire agli onori degli altari, ma è anche un’opera letteraria che svela un autore raffinato che sa creare gli ambienti in cui collocare la storia un po’ vera un poco ricostruita sulla base di documenti, di indizi, di sentimenti.

E di sentimento religioso, oltre che di competenza delle scritture, Falzone certamente ne ha tanta da potere creare un’opera che è  anche testimonianza di fede e che riesce a coinvolgere gente che non ha il dono della fede e che è costretta, dalla forza della narrazione, a credere nel sacrificio di un religioso che muore per salvare e redimere gli altri.

E infine dobbiamo dire che la storia del Superiore Francesco Spoto non è solo la storia di un santo ma è anche la storia di un uomo come tutti noi che, nel momento del dolore e del sacrificio, ritorna col pensiero al sua paese, alla sua mamma, al padre che vanga il piccolo podere anche se ha una gamba di legno, alle colline del suo paese, al suo lavoro di generale della sua congregazione.

La lettura del libro mi ha provocato grande commozione e mi ha riportato a mia madre, alla mia casa, al mio stradone che è stato la mia università, alla mia famiglia, al profumo della cucina povera delle nostre famiglie di contadini, di ‘burgisi’ dove tutto odorava di campagna e di cibi genuini. E questo non è poco perché dimostra che il libro rimane ancorato al nostro mondo anche se si proietta in un mondo ultraterreno.

Ognuno rimane il ragazzo che è stato nei primi dieci anni della propria vita, diceva Sciascia, e questa verità la dimostra padre Francesco Spoto che, mentre si proietta verso Dio, ritorna sempre alle carezze e all’amore della propria mamma.

Poteva forse fare di più Salvatore Falzone raccontandoci  delle opere che la congregazione ha realizzato in Africa e quello che ha significato il lavoro dei missionari in quelle terre,  ma urgeva parlare di un sacrificio, di un uomo che si è donato e il risultato credo che sia stato all’altezza del compito, avendo contribuito a far conoscere al grande pubblico la vita di un uomo umile che non amava definirsi un “eroe” ma solamente un “cristiano”.-

Se ogni uomo servisse la sua fede come Francesco Spoto certamente il mondo sarebbe migliore.

Agrigento, lì 18.1.2015

Gaspare Agnello