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Riceviamo e pubblichiamo una recensione della prof. Rosalia Savatteri Centinaro:

La genesi dei racconti de “Gli zii di Sicilia” e la loro storia editoriale è stata ricostruita con ricchezza di particolari dal prof. Paolo Squillacioti nell’edizione  dell’Adelphi del 2012 dell’opera omnia di L.Sciascia, per il circostanziato rapporto epistolare tra lo scrittore da una parte e Calvino e Vittorini dall’altra da lui vagliato, anche alla luce di altri studi e testimonianze. Voglio solo sottolineare un dato: l’assegnazione del premio “Libera Stampa” a Lugano per i due racconti inediti ”La zia d’America “ e”Il Quarantotto” che fu determinante sia per la pubblicazione dell’opera e sia per la continuazione dell’attività narrativa dello scrittore, che dirà  ”Probabilmente , se la Giuria di “Libera Stampa” non mi avesse premiato, avrei liquidato anch’io la mia esperienza , appena cominciata, di narratore.”   L’opera viene pubblicata da Einaudi nel 1958 nella collana diretta da Vittorini”I Gettoni”, qualche tempo  prima che venisse pubblicato “Il Gattopardo”di Tomasi di Lampedusa da Feltrinelli,(Vittorini si era rifiutato di pubblicare “Il Gattopardo” nell’edizione Einaudi, nella collana “I Gettoni”). Nel1960 l’opera viene ristampata con l’aggiunta di un nuovo racconto “L’antimonio”,e pubblicata nei”Coralli”. Per “Gli zii di  Sicilia” Sciascia  riceve il premio “Prato”. Nel 1972 esce un’altra edizione de “Gli Zii di Sicilia” sempre presso Einaudi, nella collana “I Nuovi Coralli”. Questi racconti  costituiscono, nell’iter letterario dello scrittore, il passaggio dalla letteratura come documento e saggio alla letteratura come finzione,(facciamo questa classificazione e distinzione per maggiore chiarezza nei riguardi dei  giovani lettori di Sciascia, che ,se continueranno, come ci auguriamo, la lettura delle sue opere, si renderanno conto come questa distinzione sia  “rischiosa”, come afferma il prof. Di Grado,  in quanto lo stesso scrittore ha ammesso” di essere saggista nel racconto e narratore nel saggio”.)

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Rosalia Centinaro Savatteri

Una narrativa vera e propria questa, arricchita di nuovi temi, ma  già sostenuta dai valori irrinunciabili, quali ragione, giustizia, verità e libertà nei quali lo scrittore credeva e credette fino alla morte, valori che hanno dato senso ed animo ad una scrittura talora ironica e dilemmatica, e sempre lucida, limpida, forte che emoziona come un’epigrafe scolpita su una pietra. E su una pietra i suoi compaesani hanno scolpito le parole di amore che lo scrittore ha rivolto alla sua Racalmuto.

Per il mio intervento, ho posto attenzione ai due racconti “Il Quarantotto”e “L’antimonio”,per quelle note di somiglianza che li  accomunano:1) il protagonista, la voce narrante, un giovane  anonimo “oscuro”,(molto più giovane quello del “Quarantotto”),che si forma e acquista consapevolezza di sè e conoscenza degli uomini attraverso le singolari vicende della sua vita, 2)  un contesto storico che dà alla narrazione la connotazione del “romanzo storico”, quel romanzo misto di storia e invenzioni che ha in Italia il suo primo esempio ne “I Promessi sposi “, un esempio rimasto insuperato, 3) ,ma non ultima, quella continuità che è nella storia della Sicilia  per cui la delusione post-risorgimentale si ripropone puntualmente nelle inadempienze meridionali  dei governi centrali, a partire dai primi governi post-unitari, al fascismo autoritario, alla democrazia attuale.

Ludovico Corrao (S) consegna un premio a Leonardo Sciascia, in una immagine del 15 gennaio 1988 a Gibellina. ANSA/ARCHIVIO

Con questo racconto lo scrittore si pone come continuatore di quella tradizione siciliana di scrittori come Verga, Capuana, De Roberto ,Pirandello che , ispirandosi ai moti del Risorgimento, e a quello del ‘60  in particolare, ne avevano riconosciuto il fallimento e avevano asserito l’irredimibilità della Sicilia , la negazione della storia, per concludere che niente era cambiato in Sicilia. Quando Sciascia scrive e pubblica questo racconto, l’Italia in cui egli vive è quella venuta fuori  dalla esperienza del fascismo, della guerra, della lotta della Resistenza, e nella quale si avvertiva un desiderio quasi eroico di rinnovamento, di risorgimento dalle macerie del recente passato. Ma l’affermazione della Democrazia Cristiana nelle elezioni del 1948  dava un freno all’entusiasmo iniziale, a questo si aggiungeva, poi, l’immobilità economica, sociale e politica degli anni ’50, che alla fine degli stessi anni smorzava ancor di più le aspettative di un cambiamento in meglio. Ma Sciascia, credendo nel PCI, nutre ancora  una debole speranza” la silenziosa fragile speranza dei siciliani migliori” che non si rassegnano che non rinunziano alle idee. Perciò esprime un iniziale rifiuto e un aspro giudizio sul “Gattopardo” che viene pubblicato qualche tempo dopo “Il Quarantotto”.

Ma già negli anni settanta, approdato  ad  un giudizio più sereno, ne riconosceva i dati positivi,  giustificando il suo iniziale dissenso con le illusioni che gli venivano dall’antifascismo e dalla Resistenza, che si rivelarono nel tempo solo miti e illusioni, e non forze operanti capaci di produrre miglioramenti e cambiamenti nella politica e nell’amministrazione della cosa pubblica, in Italia. E riprendendo l’argomento nel 1989, concludeva che era arrivato per i giovani il  tempo di leggerlo.  Uno  studioso delle opere di Sciascia ,Massimo Onofri (“Storia di Sciascia”),nel rilevare come il sentimento della storia sia molto simile in Sciascia e in Tomasi, perché tutti e due non fanno che affermare la dignità etica dell’uomo,  ha messo pure in evidenza “un’inquietante assonanza”, come qualcuno l’ha definita, tra “Il Quarantotto” e “Il Gattopardo”,là dove Sciascia scrive:”Il barone ….:”Domani, disse, appena l’alba fa occhio, vado dal vescovo: voglio vederci chiaro in quello che succede, se rivoluzione dobbiamo fare  la facciamo tutti, non vi pare?”E “Il Gattopardo”:”Se bisogna che tutto rimanga com’è,  bisogna che tutto cambi” come sussurra il garibaldino Tancredi al suo caro  zione.Un’assonanza che rivela un male divenuto notorio ed endemico nella classe politica siciliana e italiana: il trasformismo.

 

Nell’epigrafe posta in esergo al “Quarantotto”Sciascia pone la definizione del ’48 riportata dallo storico Gaetano Peruzzo nel Dizionario siculo -italiano(1881), in cui leggiamo che” quarantottu” significa disordine e confusione per quello che era accaduto in Sicilia in quell’anno , i disordini, comunque, non erano accaduti solo in Sicilia ,ma anche in altre  città d’Italia e d’Europa, solo che in Sicilia i cambiamenti crearono una tale confusione, come è evidenziato nel racconto, specialmente nella gente semplice, che non si capì più chi era  amico e chi era nemico, da che parte stava la ragione e il torto. Di questa confusione approfittarono allora coloro che, non avendo alcuna convinzione politica, meglio si adattarono ai cambiamenti, traendone vantaggi personali.  Anche dell’opera “Istoria della città di Castro”di questo storico Sciascia si serve  per la stesura del suo racconto, come anche del Nicastro per la parte riguardante il ’48, e, là dove lo storico si dilunga in particolari,  egli tende alla sintesi e alla rappresentazione oggettiva dei fatti, assumendosi la sua responsabilità di scrittore ,che, romanzando la storia, deve ricordarsi, più di quanto non faccia lo storico, di non debordare dalla veridicità della notizia storica. A dimostrazione di ciò Filippo Cilluffo mette a confronto un brano del Nicastro ,in cui si parla delle giornate mazaresi del ’48 :”La mattina del 16 una grande dimostrazione percorse la città,portando in trionfo un ritratto di Pio IX; procedeva alla testa una squadra di “Cappelli” col fucile ad arma collo….venne eletto un comitato del quale furono chiamati a far parte i principali cittadini…a presidente S. E. il Vescovo che si atteggiava a caldo liberale”;parallelamente quello di Sciascia:”in piazza c’era un ritratto del papa…c’erano molti galantuomini con le carabine in spalla.”(da Antonio Motta “Leonardo Sciascia”pag.197 ).

Il racconto si snoda come un percorso à rebours che compie il protagonista nel narrare le vicende della sua vita. Egli si trova rifugiato in una casa di campagna, in cui amici fedeli gli avevano offerto riparo per scampare all’arresto nel suo paese di Castro, dove ancora una volta si era unito alla rivolta di “uomini onesti che lottavano per l’umano avvenire”,( erano le lotte dei Fasci Siciliani del 1894). Ormai è vecchio e stanco e la galera gli fa paura, trova consolazione e riposo nello scrivere le sue memorie, perché gli sembra che scrivendo ,al di fuori delle contraddizioni della vita, possa finalmente trovarsi in un destino di verità. Ecco affiorare dai suoi ricordi, che non possono andare più in là del 1847, persone, luoghi ,fatti visti e vissuti che egli ricostruisce con gli occhi di allora. Prima di tutto la sua famiglia, sua madre,  una donna semplice , onesta, dedita alla famiglia , suo padre un bravo potatore che curava il giardino del barone Garziano,e a cui la vita e i tempi avevano insegnato a parlare poco e a pensare ai fatti propri. Da grande aveva imparato a leggere e a scrivere da un prete e perciò aveva mandato il figlio dallo stesso suo maestro, benché vecchio,perché anche lui apprendesse a leggere e a scrivere. E poi il barone Garziano, tirchio, pusillanime, simulatore, opportunista, adultero. La baronessa sua moglie, donna Concettina, bigotta, ignorante e gelosa. E i loro due figli, il più grande,Vincenzino, secco e spiritato che aveva manifestato vocazione religiosa, favorita e incoraggiata dalla madre, ma avversata dal padre, che lo voleva suo erede, e Cristina, un bambina della sua stessa età, vivace di lingua pronta,sua compagna di giochi nel giardino di casa, fino a quando non verrà chiusa in collegio. E poi i compaesani, tra i quali i notabili che comandavano in paese in combutta col barone: il vescovo,  il sottointendente, che era il rappresentante del re,il giudice regio, complici nel portare avanti i loro loschi interessi e i loro affari, con un’azione di spionaggio volta a liberarsi dei loro nemici personali  e di quanti intralciassero i loro progetti. E poi i liberali , il medico Alagna, lo speziale Napoli che con generosità propagandavano gli ideali della rivoluzione liberale.

Ricorda infine il moto liberale a Castro del 1848,che è il fatto centrale del racconto. Giunta la notizia della rivolta scoppiata a Palermo il 12 gennaio, il popolo di Castro insorge il 16 dello stesso mese. Ma il moto viene imbrigliato e incanalato sul nascere dal vescovo che, ricevuto il comitato rivoluzionario che già si  era costituito, si adopera per farne parte, anzi ne diventa il presidente,e inviterà farne parte anche il barone Garziano, dopo aver vinto la resistenza degli oppositori. E tutto diventa una farsa, una festa , si fa una solenne processione con il ritratto del papa Pio IX, si fanno accattivanti  discorsi sulla moderazione del popolo di Castro: il tutto finisce a sera nelle taverne, piene di ubriachi , mentre nel casino dei nobili si tiene festa con musica. Con la repressione dei moti nel ’49 e nel ’50 finisce”la pagliacciata e i pagliacci che l’avevano rappresentata si tolgono la maschera, e cominciano le condanne dei liberali del paese che devono scontare quello che non avevano ottenuto e pagare per quello che non avevano fatto, cioè una vera rivoluzione. Il protagonista guarda con gli occhi disincantati di un ragazzo questi avvenimenti, ma fa tesoro, nel tempo, degli avvertimenti del prete don Paolo che sembra farsi portavoce dell’autore, perché è l’unico che osa dire la verità. Egli afferma infatti che la rivoluzione che si stava facendo era tutt’altra cosa da quella che doveva essere la rivoluzione vera, era solo:”un modo di sostituire l’organista senza cambiare né strumento, nè musica: a tirare il mantice dell’organo restavano i poveri”.

Il ragazzo fa tesoro anche delle numerose letture che gli aprono nuovi orizzonti sul mondo e sugli uomini, per cui matura, col trascorre degli anni, la sua personale visione della vita, assume un atteggiamento di opposizione alle ingiustizie, sfida le remore del conservatorismo che si oppongono ai nuovi sviluppi sociali e politici, rifiuta il conformismo del padre,e sceglie una vita pericolosa e precaria. Parte dal suo paese il 16 maggio del 1860 per partecipare ai moti di Garibaldi, approdato nella vicina Marsala, giunge in ritardo per unirsi agli altri nella battaglia di Calatafimi, che potrà guardare da un’altura. Quindi è con Garibaldi e il colonnello Turr in marcia verso il suo paese, dove pensa di fare uno sgarbo al barone Garziano , andandogli a rubare le pecore del suo gregge per sfamare le truppe garibaldine. Ma con suo grande stupore trova il barone pronto ad accogliere Garibaldi,e non solo, ma anche ad offrire a lui e ai suoi volontari  ospitalità nel suo palazzo. Ancora una volta la rivoluzione è fallita. Ma egli, pur deluso, continuerà a credere nel cambiamento e miglioramento politico e sociale della Sicilia e ormai vecchio partecipa ai moti dei Fasci, perché in Sicilia la situazione del 1894 è uguale a quella antecedente al 1860.  Ma sempre l’azione di rinnovamento viene vanificata. La Sicilia  è condannata ad uno stato di cristallizzazione perpetuo.

Il pessimismo dello scrittore si stempera sul piano umano nella possibilità di un incontro tra nord e sud,  alla fine del racconto, nelle parole conclusive” parole di comprensione, d’amore” che Sciascia costringe il poeta Nievo a dire, quasi a risarcimento della sua chiusura e incomprensione verso la Sicilia, nelle quali si rivela la sua fede nei siciliani migliori,  quelli che non si agitano , che parlano poco . Nella descrizione del colonnello Carini poi “ così silenzioso e lontano, impastato di malinconia e di noia, ma ad ogni momento pronto all’azione:un uomo che pare non abbia molte speranze , eppure è il cuore stesso della speranza, la silenziosa  fragile speranza dei siciliani  migliori…una speranza , vorrei dire, che teme se stessa, che ha paura delle parole,ed ha invece vicina e familiare la morte” non è difficile cogliere il ritratto dello stesso scrittore.

Qualcuno lo ha definito “il sereno pessimista”, e  così lo vogliamo ricordare oggi: pessimista secondo ragione, ma ottimista secondo cuore e sentimento, un pessimista che, anche se deluso, come cittadino, di questa nostra Italia, e del volto desolato della sua isola, non ha smesso mai di credere nelle idee,nel suo impegno di scrittore, nell’arma della scrittura, per concorrere al disvelamento della verità e al trionfo della giustizia, e per far sì che la Sicilia potesse diventare “una regione ordinata, civile, con industrie,con un’agricoltura restaurata, con una società culturale più viva, più aperta.”

 

Rosalia Centinaro

Agrigento, 20 /nov/ 20015.