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Enza Petyx, già docente di storia della filosofia presso l’Università di Torino, è l’unica figlia dello scrittore-partigiano Angelo Petyx di Montedoro.

Petyx è certamente uno dei più grandi cantori degli zolfatari e dei contadini siciliani. Vittorini gli pubblicò nel 1957 “La miniera occupata” nella collana la Medusa degli italiani. Poi pubblicò “Gli sbandati” nel 1971, “Il sogno di un pazzo” nel 1978, “Le notti insonni di Liillà” che, certamente, rimane la sua opera più bella e quindi “Il lungo viaggio”, “Anna è felice”, “L’amore respinto”.

Lo ‘sbandato’ Petyx, ospite del capo partigiano Giovanni Galfrè, si innamora della figlia di quest’ultimo, MariaMaddalena (Lena) e nasce un grande amore di cui parla la figlia nello scritto che segue e che i siciliani dovrebbero leggere perché Lena è stata protagonista attiva dell’opera letteraria di Angelo Petyx e sua custode della memoria fino alla sua morte avvenuta nel mese di ottobre dello scorso anno. Una storia bellissima che unifica Nord e Sud.  (Gaspare Agnello)

Ricordando mia madre

di Enza Petyx

La prof. Enza Petyx al centro della foto.

La prof. Enza Petyx al centro della foto.

La signora del nord (come la definiva con un pizzico di affettuosa ammirazione Gaspare Agnello), che fece ragione della sua vita il riconoscimento del valore letterario dell’opera di mio padre, se n’è andata in una sera di ottobre, con gli ultimi sprazzi di luce sulla campagna che nel lontano settembre del ’43 aveva visto lo “sbandamento” di un antifascista del sud, e l’inizio a una lunga storia. Lasciandosi alla spalle Draguignan, e una lunga notte di attraversamento delle Alpi, scendendo senza meta verso la pianura, a Caraglio, piccolo paese adagiato nella campagna cuneese, la Quarta armata s’era infine sbandata, tra compravendita di tutto ciò che era possibile vendere e utile comprare, tra viltà e coraggio, furbizie e dignità. “L’Italia è in vendita”, commenta con ironia il protagonista de Gli sbandati. Ma nell’ideale politico di mio padre, che aveva conosciuto Gaeta per antifascismo, quest’Italia, stracciata dagli orrori del fascismo, non aveva mai trovato spazio. L’8 settembre rappresentava la possibile rinascita dei valori di libertà e giustizia in cui aveva sempre creduto. La peregrinazione di cascina in cascina per sfuggire ai rastrellamenti dei fascisti dopo l’editto Graziani, lo porta infine a Tarantasca trovando rifugio presso la famiglia di Giovanni Galfré. La primogenita, MariaMaddalena, detta Lena, terminava i compiti prima del ritorno in collegio. Aveva quindici anni, i capelli annodati in una lunga treccia, limpidi occhi chiari che guardavano il mondo attraverso la dolcezza della madre Celeste e il rigore del padre. Così, sul commento di una poesia  di Leopardi, avviene l’incontro con mio padre, e inizia la travagliata storia di quest’incontro: travagliata, perché troppo distante il Piemonte dalla Sicilia, e in quella distanza si mescolavano molte cose, perché troppo confusa la situazione in quei giorni di sbandamento per vedere con serenità un’amicizia che si andava facendo troppo stretta tra una collegiale quindicenne, educata dalle Giuseppine, e uno “sbandato” del sud, di sedici anni più vecchio. Non che mancasse fiducia nei suoi confronti, tant’è che entra a far parte del C.L.N. su presentazione dello stesso Galfré, che del C.L.N. era membro rispettato, e dopo la Liberazione ha l’incarico di riorganizzare in qualità di sindaco la vita democratica del paese. Ma quanto al resto non se ne parlava proprio. Nel 1945 mio padre torna in Sicilia. Mia madre inizia la sua lotta di liberazione per poterlo sposare. Dopo tre anni di lontananza, nel 1948, l’8 di settembre per ricordare la data del loro incontro, il matrimonio è celebrato. Con la pubblicazione dei primi racconti, la reciproca dipendenza anche nelle piccole cose diventa una felice collaborazione. Scriveva a matita su quaderni sottili con una grafia difficile da decifrare, mio padre: la prima lettera che ricevetti da lui – non si stancava di raccontarmi mia madre- mi diede l’impressione di foglie autunnali cadute su un foglio bianco. Ora pazientemente rendeva leggibili quelle pagine scritte a mano battendole a macchina su una piccola Olivetti. Era fermamente convinta del valore letterario di ciò che andava trascrivendo, e quando Vittorini invitò mio padre a trasferirsi a Milano, capì che era un’occasione da non perdere, anche a costo di restare lontani per un po’ di tempo, in attesa di una sistemazione stabile a Milano. Ma mio padre rifiutò. Fu facile profeta, mia madre, delle conseguenza che quel rifiuto avrebbe avuto sul suo futuro di scrittore, sulla possibilità di farsi conoscere dal grande pubblico. Ma nessuna delusione, come la mancata pubblicazione presso Feltrinelli di un romanzo caldeggiato da Gerratana, incrinò mai le sue convinzioni.

La morte di mio padre segnò una frattura irreparabile. Il tempo si fermò per mia madre al 30 marzo 1997, i limpidi occhi chiari persero parte della loro limpidezza. Li velava un dolore che non si quietò mai. La casa stessa si fermò a quella data,  immutato lo studio come se mio padre non se ne fosse mai andato, come se dovesse riprendere a leggere i libri che aveva lasciato sulla scrivania, la matita appoggiata su un foglio scritto a metà. Soltanto la cura della sua eredità letteraria sembrava dare tregua riportandola ai “tempi felici” in cui prendeva parte al suo lavoro. E divenne totalizzante, com’era stata la loro vita insieme. Le giornate passavano al computer copiando i vecchi racconti disseminati su l’Unità, il Subalpino, La Fiera Letteraria, ricostruendone la genesi, mettendo a confronto le diverse elaborazioni, da cui prese corpo il volume di Racconti pubblicato nel 2002 dalla casa editrice Sciascia; ricostruendo la lunga genesi de La miniera occupata da Il bolscevico, Il sole dell’avvenire; ricopiando l’intera prima stesura de Il sogno di un pazzo, originariamente titolato Fame a mezzogiorno; e ancora, raccogliendo in volume le recensioni che dagli anni Cinquanta, con la pubblicazione de La miniera occupata nella collana della Mondatori “La medusa degli Italiani”, avevano accompagnato il lavoro di mio padre. La malattia e il deperimento fisico rallentarono il ritmo del suo lavoro, ma non lo interruppero, fino al 18 di ottobre, quando la finestra aperta sulla campagna di Caraglio che si delineava all’orizzonte si chiuse all’improvviso, e si spezzò l’attesa e la speranza di tornare presto a casa tra le cose che le erano famigliari, e la riportavano alla vita di un tempo. A Caraglio nel lontano ’43 era iniziata una lunga storia, a Caraglio si è conclusa.

Enza Petyx