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La letteratura è condizionata in  modo ossessivo dalle esigenze editoriali e quindi dal mercato.

Il mercato è costituito dai lettori  che, nella maggior parte, è  gente di media cultura che nei libri cerca evasione,  emozioni, vicende scabrose o storie d’amore a lieto fine.

Le case editrici fanno indagini di mercato e quindi ordinano libri che devono essere confezionati a misura del lettore medio e lo scrittore deve sottostare a queste condizioni.

Poi si cerca il nome importante che buca il mercato e quindi ecco tutta una serie di libri scritti da personaggi della televisione, del giornalismo, dello sport, dello spettacolo, della politica che nulla o poco hanno di letterario.

Da queste brevi e amare considerazioni si evince il fatto che molto spesso i libri sono confezionati come si può confezionare un pasto di polpette o somministrati da grandi chef che li fanno costruire dai loro ‘secondi’.

Ci sono tantissimi politici che non hanno il tempo neanche di passare qualche ora con i loro figli e che invece pubblicano libri sui massimi sistemi della nostra economia, della vita politica, della nostra società.

E allora io diffido dei best seller, dei libri che sono in vetta alle classifiche che, molto spesso, mi hanno creato grandi delusioni.

Cerco la letteratura, la buone scrittura, il libro vero in periferia, tra la gente che scrive per passione, tra coloro che hanno bisogno di comunicare sensazioni, fatti, di narrare il mondo vissuto, quello vero, come hanno fatto i grandi narratori di tutti i tempi che non sono stati condizionati dalle esigenze di mercato.

Mi rendo conto che il mondo cambia e cambiano i gusti oltre che i modi di comunicare e questo lo testimonia il fatto che il Nobel per la letteratura è stato assegnato una volta a un uomo di teatro come Dario Fo e ora a uno chansonnier che, con la sue canzoni, ha influenzato intere generazioni di giovani di tutto il mondo. Però io rimango dell’idea che la letteratura è frutto di macerazione, di studio e deve servire a raccontare i fatti reali della vita con una forma e uno stile che solo il libro può avere.

E io continuo a cercare la letteratura nei libri di periferia che molto spesso sono veri capolavori o in tanti scrittori che in vita non hanno avuto fortuna e che vengono riscoperti da morti come Petyx e Russello.

Tra questi libri pubblicati di recente da una casa editrice che non ha la distribuzione a livello nazionale, mi ha impressionato favorevolmente  “Chapelle” di Stefano Milioto che è un professore in pensione che si è cimentato nella scrittura come saggista, drammaturgo, sceneggiatore e narratore.

Milioto è anche il Presidente del Centro Nazionale di Studi Pirandelliani di Agrigento che, ogni anno, organizza un convegno su tematiche della letteratura pirandelliana coinvolgendo circa 900 giovani studenti di tutta Italia. Questo gli consente di girare in lungo e in largo l’Italia e di avere contatti culturali molto intensi con il mondo letterario europeo e non solo.

Forte di queste importanti esperienze letterarie ci ha voluto raccontare un pezzo importante della storia del nostro martoriato paese, una storia di quella drammatica emigrazione che, alla fine della seconda guerra mondiale, portò  decine di migliaia di lavoratori italiani e soprattutto meridionali in Belgio in cambio di carbone di cui l’Italia aveva bisogno per ripartire, dopo il disastro bellico che lasciò il nostro paese in mezzo alle macerie.

La sua Macondo è Santa Elisabetta, un paese che, pochi decenni addietro, era frazione di Raffadali. Ma ogni scrittore parte dalla sua realtà per renderla universale, per farla metafora del mondo come avvenne per la Racalmuto di Sciascia.

Del resto il fenomeno della emigrazione post-bellica non è solo sabettese, è un fenomeno che tutti abbiamo vissuto nelle nostre carni perché ogni famiglia ha subito la lacerazione della ‘spartenza’ da un familiare e i tanti drammi  personali e familiari connessi a tale evenienza.

Tante famiglie si lacerarono, tante donne restarono vedove bianche e non rividero mai più i loro mariti, tanti figli subirono il trauma della mancanza del padre.

Quella è stata una storia terribile che andava raccontata anche perché è stata una storia di lutti perché le miniere di carbone spezzarono tante vite di giovani lavoratori. Basti pensare alla ‘catastrofa’ di Marcinelle che Paolo Di Stefano ha voluto raccontare in un bel libro che è stato finalista al premio Racalmare-Sciascia.

E il Professore Milioto ha sentito il dovere di raccontarci questo periodo storico con un romanzo assolutamente realistico, un romanzo che certamente è vita vissuta, realtà palpitante, carne e sangue, gioia e dolore, un libro che si può ascrivere al realismo verghiano o al neo- realismo post-bellico ma molto attuale perché il sud ancora subisce il dramma della emigrazione giovanile e specialmente intellettuale e quello della immigrazione che fa bruciare vecchie ferite non del tutto rimarginate.

L’oste Rossi dice di essere un artista, un poeta, uno che scrive. Scrive “della realtà…Storie di vita vissuta che esprime in modo spontaneo e senza studio”. Il nostro autore scrive storie di vita vissuta in maniera spontanea ma con qualche studio che gli deriva dal fatto di essere professore di lettere.

La storia o le storie del romanzo sono tante che non si possono riassumere in una recensione. Ne accenniamo molto sommariamente per dare un’idea di quella che è l’opera.

Nardo, un lavoratore come tanti altri, parte dal suo paese lasciando la moglie Maristella e tre figli.

Nardo, nel nuovo mondo, vinto dalla solitudine e dall’astinenza, si innamora di Denise e si rifà una vita.

La moglie e i figli aspettano il ritorno del padre che non avviene per cui Filippo lo raggiunge per indurlo a tornare a casa. Anche Filippo viene conquistato dal nuovo mondo e si innamora anche lui di Denise creando un triangolo innaturale.

Filippo, a differenza degli altri, fa fortuna e diventa un grosso industriale assieme al suo amico Caluzzo che gli offre alcuni spunti tecnici per arrivare a costruire una grande azienda.

L’altro figlio di Nardo, Angelo prende pure lui la via del Belgio e anch’ esso è conquistato da Denise.

La storia si intreccia e si complica in maniera inestricabile con risvolti sociologici e umani che l’Autore ha saputo dominare arrivando a soluzioni finali logiche e talvolta dolorose ma sempre restando legato alla realtà, ai fatti veri e concreti di quel mondo variegato di un’umanità quasi sempre di ‘ultimi’ di respinti dalla loro terra.

Bisogna dire che emigrarono in Belgio gente analfabeta, donne di malaffare, persone che non errano riuscite in niente e in nulla, assieme a gente che aveva voglia di lavorare e quindi di affermarsi.

Ecco cosa scrive l’Autore: “ Insieme con la tanta buona gente della cospicua comunità paesana di Chapelle, allignava qualche mala pianta, quasi a far da contraltare a un quieto e rassegnato vivere. C’erano poveracci, quelli cui la fortuna non aveva arriso, non avendo avuto occasione alcuna; quelli che se la sono lasciata scappare, non essendo saliti sul treno alla fermata giusta, quelli che non l’avevano mai cercata o lisciata; quelli che al lavoro dignitoso avevano preferito l’arte d’arrangiarsi; quelli che erano rimasti con la stessa testa e non erano riusciti ad aprirsi ai tempi nuovi; quelli che non avevano saputo profittare delle tante opportunità che offriva la nuova terra. Dal coacervo di mediocrità si erano staccati due virgulti estremi e opposti: i costruttori e i delinquenti. Filippo e Caluzzo e pochi altri da una parte e delinquenti, associati o singoli, dall’altra. Delinquenti  comuni, alcuni esasperati fino alla bestialità, capaci di atti abietti e biasimevoli e c’era chi si mutilava in miniera per l’indennità di infortunio sul lavoro. Furfanti, imbroglioni, barboni e vagabondi, artisti e sportivi. Tutte le specie erano rappresentate. E, poi all’interno delle case, ogni sorta di comportamento. Ripicche, gelosie, vendette, tradimenti, copule lecite e illecite, e dunque figli legittimi e naturali e questi, cresciuti, andavano alla ricerca del padre, il solo a non sapere che aveva un figlio.. Un caleidoscopio di umanità che esprimeva il meglio e il peggio di sé, come in ogni altra parte del mondo fra le comunità di emigrati…”

Per chi ha voglia di emergere, però, l’emigrazione può offrire tante opportunità:

“Questo ha di buono l’emigrazione, dice Filippo, che ci costringe ad aprire gli occhi sul mondo, a guardarci attorno in cerca di spazi da far propri, a farci svegliare da un sonno perpetuo. Al paese avrei imparato un mestiere o sarei rimasto a lavorare i campi e mi sarei fermato. Qui, invece, non solo ho fatto cose che nemmeno avrei sospettato, ma sono spinto ad ingrandirmi dalla realtà stessa e dalle sue esigenze. Non ho studi, ho fatto quel tanto che basta. Le occasioni le opportunità mi hanno trascinato a tanto. La fortuna è importante ed è ugualmente importante saperla afferrare”.

Teatro principale del libro è Chapelle-Lez-Herlamont un  paese vallone, provincia Hainaut nel distretto minerario di Cherleroi che l’Autore così descrive:

“Chapelle era un piccolo presepe con la piazza le chiese, le strade addobbate al più bello con luminarie e festoni, come ogni anno all’appressarsi del Natale che, con il Carnevale, era la festa più sentita. La sera, tutta in luce e musica, col suo pieno di palline e stelle argentee e dorate, guidava le danze e giocava a rimpiattino con le luci che qua e là si accendevano, formando uno sfarfaglio di riflessi fluorescenti e colorati. Il silenzio era rotto dal friggio  dei fanali e dai sibili del vento che scivolava  lungo le vie, e dalle note fuggiasche di musiche natalizie che un grammofono diffondeva dalla solitaria chiesa di Sant’Andrea giù nel vallo des Mines”.

L’autore, ambientando in Belgio il suo libro, non può non parlare di Loviano dove si trova una delle più antiche università che si fregia del titolo di “Cattolica” che è fonte di liberalità e di apertura verso il mondo esterno. Filippo, Caluzzo e don Calogero si portano a Loviano:

“Non appena entrarono nella grande piazza furono inondati da uno splendore di architettura col gioco delle forme degli edifici che sembravano avercela col cielo contro cui si rivolgevano le loro punte aguzze. Uno spettacolo. La grande piazza era piena di gente, ondeggiando, s’intrecciava come in una trama di tessuto. I tavoli dei bar erano occupati e cicalanti, e s’udiva musica diversa da più parti, sicché l’orecchio ne rimaneva frastornato. Frammisti, i rumori si risolvevano in brusio, in fiato della piazza, e i colori dei fiori e delle dominanti petunie, in vasi collocati dappertutto, sembravano pennellate su una stupefacente tela”.

Questa pagina vuole essere un tributo al Belgio ma serve anche a spezzare il clima pesante dei paesi sorti attorno ai bacini carboniferi nei quali si svolge l’azione del nostro romanzo che è romanzo di emigrazione e quindi di dolore, di nostalgia, di lontananza, di sconfitte amare e di qualche rivincita che, molto spesso, si realizza con i giovani della seconda generazione.

La prima generazione di emigranti è formata da un esercito di disperati, un insieme di ulissidi che vanno in cerca di un mondo migliore e che trovano invece un lavoro dentro le viscere della terra dove molti hanno lasciato la vita o i polmoni.

Questi disperati arrivano in una terra con costumi diversi e con una concezione della vita diversa da quella di un profondo sud dove la donna era ancora schiava dell’uomo e senza alcun diritto. Trovano costumi più libertini, la donna ha una certa emancipazione per cui molti credono di essere approdati nella terra dei lotofagi dove qualche maga Circe riesce a trasformare gli uomini in porci, creando drammi familiari che l’autore ha saputo descrivere magistralmente dando ad essi toni omerici. Del resto l’Autore ‘Professore’ non può non subire l’influsso della cultura classica che in Sicilia si respira nelle pietre che ci parlano dell’antica civiltà omerica.

Questi emigrati, lontano dalle loro famiglie, dai loro affetti, dai loro paesi, si stringono tra di loro e creano un mondo a parte che, difficilmente comunica con il mondo indigeno.

Frequentano bar italiani, organizzano feste tra di loro, insomma non si integrano con la gente del luogo e rimangono sempre stranieri.

E i matrimoni avvengono sempre tra connazionali perché la loro concezione li porta a preferire la donna della loro terra fedeli al detto “donne e buoi dei paesi tuoi”. E questo avviene anche per Filippo e Caluzzo che sono diventati ricchi ma non hanno gli strumenti per diventare classe dirigente in un paese diverso dal loro.

Anzi se fanno un tentativo in tal senso si bruciano e pagano un altissimo prezzo.

La stessa Denise, la maga Circe che fa innamorare Nardo e poi i suoi figli, parla sempre in francese quasi a delimitare un confine invalicabile tra lei belga e loro siciliani emigrati.

Certamente sarà stato difficile, per un siciliano degli anni quaranta del secolo scorso, accettare quella società e parimenti era assolutamente impossibile che la società belga potesse accogliere quella gente che era molto lontana dal loro sentire e dal loro modo di vivere.

Quindi a Chapelle, come in tutta Europa, l’emigrato difficilmente viene accettato e difficilmente si può integrare.

E la lingua usata dall’autore indica le problematiche sociologiche di quell’umanità. L’Autore usa un italiano molto spesso sicilianizzato  come ‘la più meglio’ che in italiano è errore gravissimo ma che i siciliani usano come rafforzativo del superlativo assoluto.

E poi l’emigrato usa parole siciliane che forse non sa tradurre o che riescono a farlo esprimere con più forza: “la faccia stessa nun gli apportava”, sdibbusciatu,  gliommari, non mi hanno dato lausu, manciatariu per dire corrotto e così via. C’è anche qualche frase in latino dello spretato Don Calogero.

E’ chiaro che lingua è funzionale alla narrazione e in questo  Milioto è stato veramente maestro.

A questo punto ci verrebbe la voglia di parlare delle ascendenze dell’Autore e di classificare il libro per sapere dove dovrebbe allocarlo un bibliotecario.

Potrebbe stare tra i romanzi storici, tra i romanzi sociologici o di costume, si potrebbe ascrivere al verismo verghiano o al neorealismo post- bellico. Il libro è tutto questo ed è frutto della cultura siciliana che è stata grande parte della cultura del novecento italiano. E Milioto si è abbondantemente abbeverato a tutti i grandi narratori del novecento: tutto quello che si legge si sedimenta nel nostro cervello e diventa parte di noi.

E quando scriviamo o narriamo siamo tutti quelli che ci hanno preceduto: siamo Verga, Pirandello,

Sciascia, Tomasi di Lampedusa, Vittorini, Brancati e così via.

E Chapelle è Sicilia, è Santa Elisabetta è un paese come tanti del sud che ride e piange e mastica pane nero.

Chapelle è l’epopea di tanti affamati, di tanti miserabili che furono venduti per un sacco di carbone, Chapelle è un’umanità che fu mandata allo sbando e che non si è persa, che ha lottato

e sofferto per preparare un futuro migliore ai loro figli che oggi rappresentano con dignità la nostra terra e la nuova Europa che tutti vorremmo.

Questo libro di Stefano Milioto resterà a futura memoria ed è il più grande monumento eretto in ricordo dei nostri martiri di Marcinelle e dei tanti lavoratori che con il  loro sacrificio hanno contribuito alla rinascita dell’Italia distrutta da una guerra terribile e senza senso.

Chapelle poteva essere stampato da una grande casa editrice e in questo caso avrebbe avuto un lavoro di editing che lo avrebbe forse snellito e reso più leggero.

Oggi nelle grandi case editrici lavorano persone che sanno lavorare sui ‘manoscritti’  rendendo più godibili i libri e più accettati dai lettori. Anzi abbiamo detto che riescono a costruirli.

Ma forse è meglio che Chapelle sia rimasto così come è uscito dal computer di Milioto perché noi abbiamo avuto l’occasione rara di assaporare un frutto che non ha subito trattamenti di fitofarmaci e che quindi si può gustare senza paura di avere il cervello intossicato.

Agrigento, lì 21.10.2016

                                                               Gaspare Agnello