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Quando si è vecchi, con la mente si ritorna al passato e quindi alle cose perdute.

Scrive Leonardo Sciascia ne “La Sicilia come metafora: “Come ogni cosa di noi, anche la memoria spesso è inganno. Come la mia vista, che in questi ultimi anni  mi fa vedere nitide le cose lontane e confuse le vicine, anche la memoria ha acquistato una specie di presbiopia: ricordo ora cose che dieci anni fa non ricordavo, ricordo sempre più le cose lontane, nitidamente..”

In questi giorni di intenso freddo, mentre si avvicina la festa di sant’Antonio Abate, protettore degli animali, mi ritrovo A Grotte nella mia casa di Via Crispi, di mattina, attorno a un frugale tavolo, con mio padre, mia madre e i miei fratelli a mangiare una zuppa di pane con le “fave pizzicate” condite con “zarche” selvatiche, cardi, olio di oliva, sale e pepe.

Sotto c’era il braciere e tanto caldo, caldo familiare, clima bucolico.

Era così in tutte le case di contadini e non.

Sant-Antonio-Abate

E poi bisognava portare il mulo a fare il periplo della Chiesa Madre per ben tre volte, affinché Sant’Antonio lo proteggesse, perché quando moriva un mulo si tirava dietro una casa, come scrisse il poeta Mario Gori.

Lo stesso faceva chi aveva l’asino o il cavallo: era una tradizione religiosa che si tramandava da secoli.

Tanti portavano a farsi benedire il pane che aveva forme svariate di arti o di parti di animali. Se un mulo si azzoppava e si guariva, per intercessione dell’Abate Antonio, si face un pane con la forma dell’arto guarito, lo si portava a farlo benedire e quindi lo si distribuiva ai poveri: tanti ne venivano dalla vicina Racalmuto.

Nelle strade, e anche nelle nostre case, si sentiva l’odore di stalla. Non c’erano ancora le macchine e tutto si faceva a dorso di animali o con i carretti trainati da muli o da cavalli.

Oggi, nel giro di pochi decenni, tutto questo mondo è scomparso, è scomparsa la società contadina, il concetto della “mancia” tipica dei burgisi e dei contadini che d’inverno avevano tutto in casa e non avevano bisogno di comprare nulla.

I muli non ci sono più e sono quasi una razza in estinzione, lo stesso si dica per gli asini, mentre i cavalli si allevano solo per sport.

E noi, superstiti di quel tempo, andiamo indietro con i ricordi pensando alla famiglia patriarcale, alla nonna con dieci figli e decine di nipoti, tutti riuniti attorno al braciere, a mangiare fichi secchi con in mezzo una mandorla, i buccellati o “li cosi dunci”.

Oggi è scomparso l’odore di stalla, tutti viviamo una vita diversa e certamente con tante comodità che prima non avevamo. Non avevamo i gabinetti a casa, non avevamo l’acqua corrente, non avevamo i telefoni, nè i telefonini e nelle lunghe sere d’inverno o nelle calde sere estive si ascoltavano i racconti degli anziani: “si rac    cunta e si boncunta”…”C’era na vota un re a na regina… e vissero felici e cuntenti”.

Ricordo la zia Saredda che ci raccontava tante storie da farci restare con la bocca aperta.

Nessuno si sognerebbe di tornare indietro, né si può pensare al ritorno dei morti. Lo scrittore spagnolo Marias dice che sarebbe una grande tragedia.

Però oggi si muore di cancro. Non c’è famiglia che non viene tragicamente toccata da questo immane malanno.

E’ il prezzo che paghiamo al benessere, un prezzo troppo elevato che, a lungo andare, porterà alla catastrofe.

Lo ha capito Papa Francesco che con la sua enciclica “Laudato sì” ci invita alla decrescita e al rispetto della natura che è la casa in cui viviamo.

La politica ci ha deluso. Per fortuna questa voce venuta dalla lontana Argentina e oriunda da Piemonte ci richiama alla realtà e ci dice di fermarci se non vogliamo cadere nel burrone.

Dovranno essere i giovani, che oggi vivono il dramma terribile della disoccupazione e dell’alienazione, a creare un nuovo modello di società che sappia inventare nuovi modi di vivere e di lavori nel rispetto religioso della natura e quindi della terra.

Grotte, lì 15.1.2017

Gaspare Agnello