(articolo letto 2.363 volte)

Presentare un libro è un atto di presunzione perché basterebbe che ognuno lo comprasse e lo leggesse e non ci sarebbe l’esigenza di una interpretazione personale del relatore che vede con i suoi occhi mentre il libro deve essere visto e valutato da ogni singolo lettore.

Poi presentare il libro di Lia Lo Bue “La stanza dei ricordi” diventa difficile in quanto quello di Lia non è un libro ma una “anima” perché in esso si trova una donna con tutta la sua grande sensibilità e se poi questa donna ha visto per ben due volte la morte in faccia, allora ci si rende conto che questa anima bisogna vederla in tutte le sue sfaccettature che sono tante quanto il carattere e le vicissitudini di una persona.

Lia lo Bue è figlia d’arte ed è cresciuta in un mondo intriso di letteratura. Il padre è un preside che è stato amico d’infanzia del grande Leonardo Sciascia e di cui conserva tante memorie e ricordi.

Ama la contrada Noce che è la contrada di Sciascia e in quella zona ha comprato un pezzo di terra per rivivere la sua infanzia e la sua vita ma non ama leggere Sciascia.

Leggendo questo suo libro ci si rende conto subito perché non può amare lo scrittore di Regalpetra. Sciascia era uno scrittore che affrontava i problemi sociali, la giustizia ingiusta, l’arroganza del potere politico e religioso, l’inquisizione, la mafia, Lia scruta l’anima, il cuore, i sentimenti, il dramma della vita e della morte.

Ma se Lia si avvicina a Sciascia leggendo “Il cavaliere e la morte” certamente troverà tanta affinità con la sua letteratura e finalmente potrà riconciliarsi con il grande amico del padre.

Vedrà come Sciascia, quando capì che la sua giornata terrena stava per finire, “ Si accorse…di essere arrivato come al cancello della preghiera, intravvedendola come un giardino desolato, deserto”… “La memoria era da abolire, la Memoria”. Sciascia entrò nel cancello e, per lui, la memoria è finita è stata abolita.

Lia è arrivata per ben due volte dinanzi al cancello della preghiera ed è cocciutamente ritornata indietro, forse per raccontarci i suoi ricordi, per rispolverare la sua memoria e ritornare a Racalmuto per ritrovare la stanza dei suoi ricordi.

Sciascia è nato a Racalmuto, era cresciuto in mezzo alle donne, le zie. Il destino lo portò fuori ma Racalmuto restò il suo Aleph e per buona parte dell’anno ritornava nella sua campagna della Noce per scrivere i suoi libri. Lia è nata ad Agrigento, è vissuta in un palazzo moderno che aveva balconi e finestre che guardavano sul mondo verso orizzonti marini sconfinati e pieni di mito

Eppure il suo Aleph è a Racalmuto nella vecchia casa delle zie dove andava a passare le feste e dove i genitori la ‘depositavano’ quando erano impegnati con la scuola.

Da Professoressa ritorna sempre in quella casa per prendere qualche mobile antico o per inseguire i sogni.

“…Sono quasi contenta di non avere trovato la chiave del catenaccio che tiene ben custodita quella stanza. Se devo essere sincera, voglio ricordarla com’era, col fascino di quando ero bambina, di quando ogni seconda domenica di luglio ci ritrovavamo tutti insieme in quella stanza dalle pareti scrostate già allora, col soffitto a volta, che ci riparava dal caldo senza pietà dell’estate. Poi, finito il pranzo dalla infinite portate, come babbaluci dopo un acquazzone di fine agosto, ci spostavamo, adulti e bambini, nel cortiletto prospiciente al giardino e, tutti seduti e semiaddormentati a causa del clima e della pancia strapiena, ci sistemavamo nei posti assegnati da sempre, non si sa bene da chi, a spiluccare rumorosamente e senza nessuna fretta i semi di girasole e di zucca. In quest’armoniosa atarassia aspettavamo che il pomeriggio caldo si spegnesse in una serata dal cielo rosa, segnata dal rintocco delle campane dell’ultima messa e dai fuochi d’artificio successivi mentre, nella chiesa di lu munti, persino i cavalli celebravano la madonna miracolosa. Nella stessa stanza ci riunivamo anche a Natale. In quell’occasione, però, la stanza veniva riscaldata, ma senza molto successo, secondo mia madre la cui rinite si scatenava in un battibaleno, da due stufe a gas. Loro, le stufe, invece di prendersi cura di noi, sembravano farsi beffe del nostro disagio causato dal freddo cui non eravamo abituati e con le loro pance, perfettamente tonde spalancate in una risata sinistra, rivelavano fuochi misteriosi, sempre e comunque sconfitti dal freddo di quella stanza. Zia Angelina non faceva mancare il presepe col muschio vero e io mi sono sempre chiesta dove quella zia dalle mille risorse riusciva a trovarlo. Io non ci sono mai riuscita. Era un presepe articolato su più livelli, con i pastorelli alle prese con le loro azioni usuali ma a volte anche strani, qualcuno pescava pesci di mare da un improbabile fiume di carta stagnola senza origine e senza sbocco e qualcuno preparava il pane allegramente tra batuffoli di neve di bambagia. Diverse figure spirdate guardavano la grotta e vecchietti addormentati da sempre oziavano senza scomporsi dinanzi al bambinello. A Natale, sebbene facesse freddo, un freddo pungente e a volte umido che ti entrava nelle ossa, c’era il caldo della famiglia riunita, tutti vivi e tutti felici. Adesso la stanza è chiusa e vuota. L’adesso reale si presenta per certi versi mozzo, privo di alcuni affetti, di quei visi familiari, di quei gesti che hanno assunto nel ricordo la sacralità dei riti. Per fortuna la porta non si è aperta. Altrimenti il passato che continua a vivere, intatto e perfetto, nella mia memoria sarebbe andato distrutto in un secondo. Ho senza dubbio uno strano rapporto col passato e con le stanze. Ne ho una per ogni stagione, una per ogni ricordo e una per ogni incubo. Le mie stanze non sono solo luoghi fisici, oltretutto alcune non esistono più, sono luoghi della mente e del cuore. Sono stanze immateriali, una sorta di deposito dei ricordi, che posso aprire solo io, perché la chiave, l’unica, è dentro di me.

E’ bello il periodo del Natale, per tutti, ma soprattutto per i bambini, e sapete, signor Librici e signor Terrazzino, io miei Natali da bambina li ho trascorsi tutti in quella stanza, qui a Racalmuto. Che odore di legna, di pane di casa, di cosce di pollo a forno…mmh mi sembra ancora di sentirli questi odori.. E i sapori…la cassata di zio Enrico, le polpette con la salsa e la menta di zia Angelina e li bucciddrati. E la preghiera prima di ogni pasto, obbligatoriamente, pena gli anatemi della zia suora. E zio Enrico, il dolcissimo zio dottore, paziente controllore della pressione di un’intera famiglia, che, accecato dalla fame, imbrogliava pronunziando velocemente parole senza senso per finire subito la preghiera e cominciare il prima possibile a fare onore a quella tavola piena di cibo e di amore. Che belli che erano quei Natali. Peccato che i miei figli non abbiano vissuto e assaporato un Natale così. I loro sono stati sicuramente diversi. Natali di città. Natali in un palazzo di otto piani”.

Questi, come avrete capito dalla bella ed elegante prosa, non sono i ricordi della scrittrice, sono i ricordi di tutti noi e questo è il racconto che avremmo voluto scrivere tutti e che per noi lo ha scritto Lia Lo Bue questa svampita professoressa che ama la vita e che è piena di incubi e di paure per via della vista del cancello della preghiera.

Una donna che insegue sogni e che viene condotta dai due bidelli Librici e l’amurusu Terrazziono che la richiamano ai propri doveri:

“Provessorè ma chi fa un su vivi u cafè? Si raffredda se perde ancora tempo.

  • Come signor Librici? Di che cosa sta parlando? Quale caffè?
  • -Povessorè m’ava scusari ma lei un’è ghiunta?
  • -Ogni volta che smette di fare qualcosa e si ferma fisicamente, con la testa se ne va da un’altra parte-
  • Ccà ava a stari cu nnautri, sennò chi binnimu a fari o bar?
  • -Avete ragione scusatemi, lo sapete come sono fatta no? E poi forse è l’atmosfera di questo paese, troppi ricordi e se la testa si mette in moto chi la ferma più?
  • Sì lo sappiamo provessorè com’è lei. Però a me sembra che sia ora di tornare a scuola. I nostri permessi scadono fra circa mezzora.
  • Ninni emu, provessorè?
  • Sì, sì, certo, vado un attimo in bagno e partiamo.
  • Provessorè ma unn’è ca s’addurmisci in bagno?
  • Signor Librici, addormentarmi io? In bagno? In bagno no, casomai in macchina.Ahaha, babbiu, state tranquilli faccio plin plin e torno.
  • Sapiddu provessorè, noi di lei ci aspettiamo di tutto”

Questa è la vera Lia, quella originale, ma poi la vita ci cambia: passi dalla casa dei ricordi alla casa anonima di città, al non luogo di Marc Augé, sei la beniamina e poi arriva la sorella che ti toglie la scena e diventi la bomboletta a gas, la sorella sempre grassa, arrivano le tempeste della vita che ti cambiano e ti fanno venire gli incubi.

Vero che hai un balcone da cui puoi dominare il mondo e da cui entra la vita ma da quel balcone può sfuggirti la vita, il balcone o la finestra può rubarti i tuoi figli, il mare può incupirsi e travolgerti in un istante mentre sei felice:

“La mia stanza da ragazza si affaccia su un’ampia vallata, baciata dal mare, che si estende tra due estremità: una punta bianca a est e un porto a ovest…

…Sto studiando nella mia stanzetta ed è sera; da brava bambina, ripasso prima di andare a letto, ma forse stasera ho esagerato. La testa mi fluttua e mi oscilla colma d’idee, concetti e nozioni; non mi reggo quasi più in piedi e il letto mi accoglie rassicurante e avvolgente, un lettino da bambola in una giungla di animali feroci. Mi corico e non tardo a prender sonno, ma il mio vagabondare nei meandri delle mie paure inconsce, dei miei desideri irrealizzati e del mio vissuto non è un bel sogno. E’ un incubo che diventa quasi realtà.

Comincio a sognare e nel mio sogno  io sono affacciata al balcone e osservo il mare come se fossi in attesa di una risposta ormai dimenticata. Aspetto, la fronte appoggiata ai vetri, quasi nascosta alla vista del mondo, grazie alla complicità di tende bianche cattive imitazioni di nuvole bianche di primavera. A un certo punto, il tempo muta repentinamente e furiosamente. Il vento comincia a soffiare sempre  più impetuoso e arrabbiato e provoca un cambiamento anche  nel mare che si agita , s’inquieta, inizia dapprima con lentezza innocua e poi con sempre più veloce violenza a ingrossarsi; a poco a poco abbandona i margini naturali delle spiagge e comincia quasi a darlo a vedere ad avanzare.

Lo guardo non ancora preoccupata e convinta che qualcosa o qualcuno fermerà l’avanzare di questa inaspettata anomalia della natura.

Il tempo e il mare nel mio sogno non si arrestano. Irrazionalmente immobile ai vetri del balcone assito impassibile o incosciente all’avvicinarsi di questa massa azzurra che si fa di istante in istante sempre più vicina, sempre più minacciosa, sempre più travolgente. C’è un momento in cui finalmente mi rendo conto che la situazione sta degenerando, sta imboccando una via senza ritorno ed è in quel momento che l’acqua giunge ormai incontrollabile a bagnarmi il viso attraverso il balcone, adesso misteriosamente spalancato. Mi affaccio e vedo le stradine, strette e tortuose del centro storico inondate e cancellate. Mi ritiro, impaurita e preoccupata ma è troppo tardi: le onde, divenute gigantesche, sono arrivate nella mia stanza al quinto piano, non provo neanche a scappare o a rinchiudermi dentro casa, che sarebbe l’azione più normale e sensata in una situazione del genere. Riconosco e ammetto che non c’è più niente da fare e che non vale la pena neanche provare a lottare contro quell’ammirevole, sublime invasione. Resto immobile ad aspettare che il prossimo assalto mi porti via e mi godo lo spettacolo onda dopo onda, spruzzo salato dopo spruzzo salato, chiedendomi stupita, ma non così tanto, perché mai stia assistendo a questa scena mostrando una totale assenza di reazione. Non è normale da parte mia questa passiva accettazione di una personale generale catastrofe.

E’ come se volessi arrendermi, ma non è una lotta. Sono certa che non sia necessario fuggire: è una resa incondizionata la mia. E’ come se volessi farmi acchiappare, ma non è un gioco. E’ quasi un ritorno alle mie origini: è la fine e il principio di tutto”.

E’ chiaro a tutti il senso drammaticamente metaforico di questo sogno che va letto e riletto e meditato in ogni sua parola. Ogni parola, ogni frase ha un senso profondamente e terribilmente vissuto. E’ un viaggio  verso “il cancello della preghiera” che la nostra scrittrice ha visto, ha toccato e da cui miracolosamente è ritornata per vivere i suoi incubi e i suoi terribili sogni che sono presenti in altre pagine di questa “anima” e che ci lasciano senza fiato.

C’è l’incubo della morte in mezzo ai topi e all’immondizia e questo ci riporta sempre a Sciascia quando afferma: “Ma inquietante era altro pensiero: che tra le immondizie l’uomo si avviasse a morire”, cercando Dio con la preghiera, aggiungiamo noi, e recitando l’Ave Maria e l’Angelo di Dio a differenza del suo conterraneo o come il suo conterraneo Leonardo Sciascia che dice: “ Non voglio morire coi religiosi conforti della scienza: che non solo sono religiosi quanto quegli altri, ma strazianti in di più. Se mai sentissi il bisogno di un conforto, ricorrerei a quello più antico. Mi piacerebbe, anzi, sentirne il bisogno; ma non lo sento”.

Ma diciamo ancora con forza che la nostra Lia non è questa degli incubi di morte, è la professoressa che fa auto ironia su se stessa, è la donna che scherza con i bidelli, è la donna che ama come tutte le altre donne.

E stupenda la pagina in cui descrive la sua attrazione verso un uomo ‘gigante’.

Lia è invitata dall’amica del cuore a battezzare il proprio figlio, in Puglia e questo le accade dopo avere rotto il suo fidanzamento:

“Davanti a lei si stagliava un uomo sui trent’anni, un gigante, nel cui viso splendevano gli stessi occhi della madre colmi però di un’allegria e di una luce che la vita aveva cancellato da quegli altri, più vecchi e più sapienti. I capelli scompigliati erano biondo scuro e le ricordavano le spighe di grano mature. Ciao comare- la salutò e la abbracciò senza darle il tempo di parlare, facendola sprofondare in un vortice. Si sentì rimpicciolire e avvampare, rimase immobile e muta, incapace di rispondere al saluto; le ci volle qualche minuto per riprendersi, per ritornare in sé e cercare di avviare una conversazione quasi normale. Quando riuscì finalmente ad alzare gli occhi verso quello che per lei sarebbe stato da quel momento in poi il gigante, sentì i suoi occhi puntati su di lei e riabbassò lo sguardo turbata…

…il gigante aveva continuato a fissarla più o meno furtivamente. Avvertiva il suo sguardo anche senza vederlo e la imbarazzava e la intrigava allo stesso tempo. Non riusciva a capire il perché di quello strano interesse…

….Si percepì avvolta in una bolla trasparente fatta del fiato delle sue parole, una bolla che lasciava tutto il resto del mondo al di fuori del loro piccolo universo appena creato. Erano vicini, ripiegati su loro stessi, rinchiusi in un mondo magico dove l’esistenza degli altri era bandita. Udì distintamente soltanto l’invito a seguirla nel garage: -Vieni -le disse- ti mostro il mio regno!

Come ipnotizzata, si lasciò prendere per mano e ritornata bambina si lasciò guidare. Non voleva e non sapeva opporsi a ciò che lui le proponeva. Non conosceva bene il luogo e non sapeva esattamente dove stessero andando.. Capì soltanto che aveva cominciato a scendere giù per delle scale che li avrebbero condotti in un posto che non faceva esattamente parte della casa…

…Cominciò a sentire caldo, pi freddo, poi si sentì invadere da una sofferenza che le accelerava i battiti e quasi la soffocava togliendole il respiro. Che cosa ci faceva lì lei? Dentro il suo cuore sapeva benissimo perché fosse lì e perché non avesse potuto fare a meno di accompagnarlo nella stanza del grano. Il tempo sembrava essersi fermato ma non le parole del gigante biondo che diventavano musica indistinta. Parlava, parlava, sembrava non stancarsi mai ed essere sempre in grado di trovare  altre parole per continuare a parlare; era travolta, annientata e allo stesso tempo affascinata da quel contadino gentile che sembrava aspettasse lei da una vita per parlare e sembrava non vedere che lei.. L’aveva trascinata in quella stanza con la luce dei suoi occhi, in cui era impressa una preghiera perentoria come un ordine. L’aveva portata là dove lui era più forte, nel suo regno, nella stanza del grano dove tutto dipendeva da lui, dalla sua bravura, dalla sua forza e dalla sua tenacia.. Rimasero in piedi l’uno accanto all’altra, affascinata, lei, dalla vista di tutto il suo grano baciato dagli ultimi gentili raggi del tramonto, incantato, lui, da non si capiva bene cosa, forse dalla sua morbida, arrendevole dolcezza, e quando lei intuì dal ritmo più lento che il fiume di parole stava per esaurirsi, si chiese con falsa paura che cosa sarebbe successo allorché anche lui si fosse reso conto che la sua furia verbale era giunta alla fine. Erano sempre in piedi ma leggermente più vicini, pronti e ansiosi di sfiorarsi, tesi nell’attesa come l’arco carico della sua freccia tra le braccia di un soldato d’altri tempi. Potevano sentire l’uno l’odore e il calore dell’altro. Si era fatto buio, fuori e dentro quel rifugio dove non c’era alcuna luce artificiale che potesse sostituire quella del sole, adesso l’aria era stranamente ferma e ancora calda lì nella stanza del grano. Tutto era immobile e silenzioso. Aspettò che succedesse, sentiva che doveva succedere, stava per succedere e ne era già cosciente e felice. Lui, con la scusa di portarla in mezzo a quell’immenso mare ormai oscuro, la prese dolcemente per una spalla per condurla tra le onde del grano. Aspettò, per un tempo che le parve infinito, la mossa successiva, un giro di valzer, un faccia a faccia o semplicemente il tocco di una bacchetta magica affinché il tocco delle labbra del gigante sulle sue diventasse reale e non soltanto desiderato e sognato, ma invece sentì solo con un sentimento di fastidio e di delusione, una voce volutamente allegra e leggermente stridula che proveniva dalla porta del granaio ormai spalancata del tutto; una voce che sbriciolava senza alcun riguardo l’incantesimo di attimi, svanito in un attimo.

Dove siete finiti voi due?”.

La  donna che si innamora, che scherza con i bidelli, la svampita è il vero personaggio di questo libro, gli incubi, le paure, le fobie sono la patologia.

Ma la scrittrice rimane sempre la bambina della prima stanza della sua vita la stanza di Racalmuto, la stanza dove conserva i ricordi del passato a cui aggiunge i ricordi del fututuro.

E’ un libro quello di Lia Lo Bue drammatico, ma ironico, allegro, pieno di amore, un libro dell’anima scritto con leggerezza e con la maestri di una donna che sa giocare con le parole per avvincere il lettore e farlo sentire protagonista di una storia che è forse la storia di tutti noi.

Agrigento, lì 4.4.2017

Gaspare Agnello