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Alberto Minnella è un giovane agrigentino, cresciuto a Siracusa, che ha il pallino del giallo e del noir, passione che io non coltivo, per cui non credo di avere competenze specifiche per recensire un noir o un giallo.

Nel 2016 Alberto Minnella ha pubblicato “Portanova e il cadavere del Prete – Siracusa 1964” edito da i Fratelli Frilli.

Sciascia aveva una competenza specifica e ne scrisse molto. Viaggiava da Racalmuto a Caltanissetta con un giallo in tasca e ne fece poi tesoro. Ma i suoi gialli sono diversi.

Ne ‘Il giorno delle civetta’ all’inizio del libro si sa chi è il morto e si conosce perfettamente chi è l’assassino; ma l’inchiesta,  i meandri complicati della giustizia, le ingerenze della mafia fanno affievolire le prove e alla fine il morto rimane e l’assassino si volatilizza e a tutti viene il dubbio su chi veramente abbia sparato.

E poi per Sciascia il giallo non è fine a se stesso ma è l’occasione per parlare di altro, per esempio di giustizia, di mafia, di politica.

Minnella ha creato un nuovo personaggio, il Commissario Portanova che, preso dalle sue inchieste, non si cura dei suoi rapporti sentimentali per cui la moglie Carla è costretta a lasciarlo per ritornare alla casa del padre, non quella del padre celeste, ma quella del padre autentico. Anche la vedova Lucia lo scarica. Del resto questo strano commissario è ‘sminchiato’ perché è affetto da una seria prostatite che gli crea fitte dolorosissime nei momenti più inopportuni.

Aspettiamo con ansia il seguito di questo romanzo per vedere se il commissario trova il tempo di operarsi e come accetterà la ‘retrospermia’ che lo renderà incapace di fare figli se non con la procreazione assistita.

Aspettiamo ancora di sapere come andrà a finire il suo rapporto con la moglie Carla perché ci sono indizi che Portanova non abbia dimenticato la moglie e che anzi soffra la sua lontananza e la solitudine che questo gli provoca.

Affoga la sua vita nel vino, nel liquore e nel mezzo toscano che Minnella chiama “ammezzato”, che, in questo senso, ha l’aria di un neologismo.

Leggendo il libro sono riandato a mio padre che visse 91 anni fumando con gioia il toscano originale, il cui profumo mi riporta alla mia fanciullezza.

Mi diceva mio padre che il vino e il fumo del toscano allontanano i germi patogeni dal corpo e quindi allontanano le malattie. Probabilmente anche il commissario Portanova avrà una lunga vita ma deve sperare che finalmente la morte del commissario Montalbano esca dalla cassaforte di Camilleri, per lasciare spazi letterari e cinematografici ad altri commissari che chiedono di poter fare le loro inchieste liberamente.

Portanova vive la sua vita in una stanza delle Questura, è circondato dai suoi uomini, mal sopporta il Questore Diotaiuti, rimpiange il suo vecchio vice e non stima quello nuovo. Ha un amico giornalista che gli dovrebbe fare da informatore.

Ogni morto per lui è un ‘caso’ e quello che più lo assilla è il cadavere del prete spogliato, nel senso che viene trovato morto nudo.

L’indagine è complessa e si svolge nella meravigliosa isola di Ortigia che l’autore non manca di descrivere in tutta la sua bellezza carica di storia e di mitologia con riferimenti ai miti quali quello di Alfeo e Aretusa.

Nel racconto c’è la vita e i costumi siracusani: “fu netta la sensazione, scrive Minnella, di sentirmi fasciato da quella leggera cadenza abulica su cui danzava il dialetto ortigiano”.

Fa capolino la mafia della cosiddetta provincia “babba”.

C’è anche la Mastrarua di Elio Vittorini e non poteva essere diversamente essendo Siracusa la patria del grande scrittore siciliano; evidentemente le strade della Ortigia di oggi non sono le strade di “Conversazione in Sicilia” perché il contesto è tutto doverso.

Il Prete, padre Mariano, è un uomo emarginato; è stato adottato e avviato alla carriera sacerdotale. Vive l’amore di Anna Moscuzza e la gelosia di un’altra donna che lo portano a morte.

Il prete  ha da mantenere un decoro come si conviene al suo abito talare per cui la soluzione finale forse acqueterà la sua coscienza e porterà pace alla sua vita.

Ho cercato, come critico, di andare oltre le indagini di polizia per vedere il valore letterario del libro e mi ha intrigato il linguaggio di Alberto Minnella che inventa una parlata figurativa diversa da quella comune.

Cito alcuni esempi significativi:

INDOSSAVA uno sguardo sicuro.

Fascicolo TRAVESTITO da lettera.

UCCIDENDO il sapore aspro di limone.

Osservai un raggio di sole…PRECIPITARE a terra.

PETTINARE i pensieri con un sigaro.

Sentii un LAMENTO UMIDO minacciare pioggia.

E a proposito di una torta posta sul tavolo scrive:  Non avrei voluto cedere ma presi un piatto dalla credenza e un coltello dal cassetto e stremato di voglia….LA PUGNALAI.

Lo sguardo le s’ALLAGO.

La porta mi si chiuse MALEDUCATA alle spalle.

Questo modo di parlare dà un senso interessante al libro dove la parlata è contestualizzata al luogo di caserma dove la “minchia” la fa da padrona, assieme al fumo, all’alcol e ai panini.

Minnella fa uso del dialetto e questo potrebbe fare pensare alla parlata di Camilleri.

Non è così perché la lingua di Camilleri è tutta inventata mentre Minnella fa uso del siciliano o forse della “cadenza abulica su cui danza il dialetto ortigiano” che io non conosco.

Il libro, per essere scritto da un giovane, depone per una promessa letteraria che ancora ha tempo di affinare le sue armi per arrivare a un pubblico che ha esigenze particolari.

Il pubblico del giallo chiede emozioni, suspence, chiede che il suo commissario sia un eroe, chiede anche qualche pizzico in più di sesso o di eros.

Del resto bisogna tenere conto che il libro oggi è diventato prodotto commerciale e gli editori chiedono sempre un prodotto appetibile al mercato.

Però l’autore deve tenere presente che il giallo si svolge nella società in cui viviamo e quindi dal giallo devono venire fuori i problemi della nostra vita e del nostro tempo (Sciascia docet).

Agrigento, lì 9.12.2017

gaspareagnello