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Silvana Grasso, con il suo nuovo romanzo “Solo se c’è la luna” edito da Marsilio, ci spiazza perché sembra che voglia percorrere nuove strade che noi vorremmo comprendere.

Conoscevamo la scrittrice de “La pupa di zucchero” che si interessava delle stragi dei braccianti: “…e pensava ai figli di puttana che, dal Governo alla Procura,  avevano archiviato l’eccidio del Sessantasette, quando quattro braccianti, padri di famiglia, erano caduti ammazzati dalle cariche della Celere, tra contrada Terrasanta e Chiano di Pietranera”.

Conoscevamo la fantasia sfrenata de “Il cuore a destra”.

Ora ritroviamo ancora, nel nuovo libro, tutti gli elementi caratterizzanti della letteratura della “Rossa” quali l’insistere sulla coppia o sui gemelli, i suicidi e quindi la tragedia de “i vinti”, il leitmotiv della “malattia” l’avversione al matrimonio, il fastidio rispetto all’italiano scolastico, cose egregiamente sottolineate da Marina Castiglione.

Tutto questo si trova intrecciato nella storia di Girolamo Franzò che emigra in America e ritorna da imprenditore col nuovo nome di Gerri, aprendo una fabbrica di sapone che riesce a conquistare i mercati e a farlo molto ricco e potente.

Gerri fa un matrimonio di comodo con Gelsomina che, a primo acchitto, viene descritta come una comparsa incapace di assolvere al suo ruolo e che invece trova un suo mondo impensato e che vive a prescindere dal marito e dalla sua ricchezza.

Un personaggio strano ma indovinato quello di Gelsomina.

Nasce da questo matrimonio, Luna con una grave malattia: deve stare lontano dal sole. Se viene baciata dal sole rischia la vita per cui deve vivere sempre a casa o uscire la notte e qui si dipana tutto il racconto della Grasso.

Fin qui tutto va bene ma siamo colpiti da alcune cose che ci hanno sorpreso. Intanto ci saremmo aspettati che la Grasso sviluppasse un discorso molto più consistente sulla bellezza e sul valore della vita notturna e invece lo ha fatto solo parzialmente e poi la lingua. Certo non vogliamo criticare un’ insegnante di filologia sulla quale la Castiglione ha scritto “L’INCESTO della parola. Lingua e scrittura in Silvana Grasso”, però abbiamo notato alcuni periodi con molte incidentali che ci hanno portato come in una casba dove è difficile trovare la via maestra. Ecco un esempio: “Un disadattato garzone di campagna, con pochissimi muscoli, un corpo esile, e sulla faccia una sindone di terra, fango e vino, che pareva sangue, quando, a tempo di vendemmia, scalzo, pestava per settimane montagne d’uva nel palmento, e lo perdeva tutto il suo colore di bambino, diventava colore del vino, terrorizzato di restarci a vita, per un sortilegio, una maledizione, colore del vino”. Abbiamo contato ben quindici virgole.

Nella sua virulenza ‘incestuosa’ la Grasso si permette di dire che “lei era troppo bellissima” e questo nel linguaggio di una canicattinese di campagna lo possiamo capire, anzi contestualizza il discorso.

Ma la contestualizzazione della Grasso va oltre i limiti perché nel linguaggio comune del libro la parola ‘cazzo’ viene ripetuta circa 122 volte, mentre la parola ‘minghia’ 27 volte e ‘merda’ 30 volte, mentre i ‘coglioni, fanno capolino per ben 14 volte circa.

La scrittrice ci ha detto che tutto serve per ‘contestualizzare’ e poi ci ha chiesto se questo ci disturbasse.

Non avremmo avuto nulla da obiettare se questo linguaggio fosse stato solo di Gerri che è un “parvenu”, ma è generalizzato.

E alla fine si trovano nel libro alcune scene  fortemente erotiche…e più.

A questo punto chiediamo a Silvana Grasso perché questo linguaggio così ‘sboccato’, perché questa prosa, perché il sesso spinto fino all’inverosimile?

Ci dirà che siamo dei moralisti e che forse ognuno di noi nel suo alcova è più spinto di quanto scritto? Probabilmente è così, ma allora Silvana la Rossa vuole percorrere le strade della James o di Anais Nin o vuole concedere qualche cosa al mercato?.

Abbiamo letto “Le sfumature” e non ci hanno entusiasmato, anzi ci hanno infastidito, abbiamo letto Anais Nin e ci è piaciuta perché, nel suo genere, è una vera e grande scrittrice.

 

Tutte queste cose noi le diciamo perché il racconto della Grasso è veramente interessante e si prestava a uno sviluppo diverso e importante e poteva diventare appetibile senza queste varianti di cui prendiamo atto.

Queste considerazioni le abbiamo scritte a fine marzo 2017 e non le abbiamo pubblicate per evitare di influenzare negativamente le giurie dei premi letterari, ma ora che è finita la stagione dei premi le rendiamo di dominio pubblico per dire la nostra, sull’ultima opera di Silvana Grasso che ha avuto un buon successo di pubblico.

Agrigento, lì 29.11.2017.

Gaspare Agnello