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Si allega l’unita recensione a cura di ISTITUTO ALBERGHIERO “G. AMBROSINI” di Favara – Saggio letterario su “Storia di Matteo” di A. Russello. Si rammenta che il libro in questione fu anche chiamato da Russello La Scure ai Piedi dell’Albero.

“Storia di Matteo” è il romanzo pubblicato postumo,  in cui emerge la profonda umanità di A. Russello, il suo viscerale legame con Favara, terra-metafora della vita nel meridione d’Italia, dove si trovano tutte le componenti, socio-culturali, religiose, politiche, che segnano e contraddistinguono la Sicilia del ‘900. Attraverso il racconto della vita di Matteo seguiamo, in una visione prospettica, la storia della provincia di Agrigento, di Favara in particolare, dai primi del Novecento fino allo sbarco degli Americani in Sicilia e alla distribuzione delle terre ai contadini nonchè alla decadenza dei baroni. Favara è descritta con dovizia di particolari, nei suoi storici palazzi e nei suoi siti, il castello Chiaramonte, il Seminario, l’Orfanotrofio sul colle del convento di San Francesco, le Trerocche,  il Poggiomuto, la Piana, San Pietro, la Biblioteca comunale ed i palazzi dei nobili, dove l’autore crebbe e visse in gioventù. Anche la lingua utilizzata rispecchia la realtà: la sintassi, non sempre lineare, presenta talvolta l’ellissi del soggetto e del verbo, per conferire un timbro di autenticità e di realismo ed anche il lessico è infarcito di vocaboli tratti dal dialetto e dal parlato, pur mantenendo, tuttavia, un registro alto, indice del livello e della statura intellettuale dell’autore e la cultura, faticosamente conquistata, del protagonista. Matteo è l’emblema del riscatto dei poveri contadini, al servizio dei ricchi padroni, per i quali dovevano coltivare la terra, allevare gli animali per poi non potersi neanche sfamare, perché persino <<le uova erano destinate ad alimentare l’intelligenza dei ricchi>>. Quella, però, nonostante le ristrettezze ed i morsi della fame, è una gemma preziosissima, un valore immenso, che solo il buon Dio distribuisce senza guardare ai titoli nobiliari, né ai libelli dei notai, tanto che anche il servo Matteo potrà un giorno dialogare con i nobili e lasciarli a bocca aperta, perché non c’è titolo che tenga di fronte ad uomo colto, che sa ben parlare, che ha sempre argomenti interessanti e battute argute da far stupire tutti. Anche le donne non sono indifferenti di fronte alla profondità del sentimento e alla musicalità del verso, con cui tutta la realtà e la natura si veste di un fascino incantevole e di uno splendore mozzafiato. Matteo è un senza nome, figlio di una relazione illegittima di un nobile con una povera contadinella qualunque, che, fosse stato per il ceto altolocato e di irreprensibili costumi e di onorata reputazione, sarebbe finito insieme al letame; ma a Favara non esistevano solo i nobili, c’erano anche i banditi, i poveri, c’era anche la gente che viveva del duro lavoro dei campi, per fortuna per lui, così quel fagottino andò, come orfanello, nella casa del nobile, illustrissimo, onoratissimo barone Amodeo <<d’immensa carità>>, il quale lo crebbe tra la sua servitù. Dentro Matteo, però, scorreva sangue nobile,  e, come avvenne nel piccolo Mosè della Bibbia, citato dall’autore, cresciuto nel palazzo reale, il cui destino era quello di riscattare e liberare il popolo ebreo dalla schiavitù dell’Egitto, anche Matteo alla fine avrà il delicato compito di condurre il tenente americano, appena sbarcato in Sicilia, nei meandri e nei cunicoli segreti di Favara, portandone la liberazione dal regime nazi-fascista e dal latifondismo dei baroni. La vita di Matteo è una lotta per la sopravvivenza, non solo materiale, ma anche per quanto riguarda la sua identità, più volte negata e rubata: la prima volta alla nascita, poi dai diversi suoi padroni, che pur cambiandogli le mansioni, non smisero mai di ricordargli che altro non era che un servo: anche Maristella, alla quale Matteo insegnò l’arte di andare a cavallo e tanti altri segreti della Natura, non mancava di ricordargli << Servo, non sei altro che un servo!>>. Una costante della sua vita è stato il lavoro presso i padroni, prima presso il barone Amodeo, poi per passaggio di proprietà al barone Scalia, in quanto alla morte del predecessore, proprio come al tempo dei principi medioevali, tutto ciò che apparteneva al contado, compresi i servi, passava al suo legittimo successore, cosicchè, se con il barone Amodeo Matteo andava a riempire il bombolo dell’acqua e a raccogliere le uova al pollaio, con il barone Scalia il suo incarico era quello di stalliere. A quel punto, però, un evento storico cambia il corso della sua vita, un’ordinanza bandita a gran voce da Paolino il banditore, intervallata dai colpi del tamburo << che tutti i ragazzi in età di scuola>> dovevano ottemperare all’obbligo e che << se i genitori non ce li mandavano, incorrevano nella sanzione della legge>>. Da allora Matteo frequenta la scuola dell’obbligo e, seppur a prezzo di pesanti umiliazioni, impara a leggere, a scrivere e a far di conto, finchè dopo la quinta elementare il barone e la sua magnanima moglie Angelina decidono di mandarlo in Seminario, dove la sua mente si apre alla conoscenza della filosofia, della teologia, del latino e di tante altre materie grazie ad uno studio sistematico, molto serio e  ad una disciplina rigidissima. Si tratta, però, di una breve parentesi, in quanto sotto le pressioni insopportabili di Padre Carmelo e delle sue dolorose frustate, Matteo esce e va incontro al suo nuovo lavoro, sempre per gli Scalia, di allevatore di maiali, con cui dimentica per sempre quel profumo di gigli che aveva respirato in Seminario.  Alla morte di costui Matteo bussa al portone del barone Schirò, che lo apprezza per la sua cultura e la sera, dopo il lavoro di cavallaro, lo accoglie e lo tratta come un pari , ma, in realtà, pari non era e, nonostante avesse assistito fino alla morte il figlio moribondo, fu poi cacciato via perché colpevole, a dir loro, di aver mangiato arbitrariamente un pezzo di formaggio. L’ultimo padrone sarà il barone Faldella, che quasi in punto di morte confessa di essere forse suo padre, solo dopo aver apprezzato la sua cultura e la sua fedeltà, e lo onora del suo cognome, quello che aveva sempre desiderato. Anche dopo la  morte, da suicida, del barone Faldella, Matteo continua a servire la famiglia, i suoi due figli maschi e le loro mogli, in particolare la bellissima e fiera Maristella, detta Donna Maria, fino al giorno in cui, a causa delle ipoteche del padre, sono costretti a lasciare il palazzo per cederlo al nuovo padrone, Carmine Pace, gabellotto e non barone, perché la guerra e l’avvento della democrazia ha spazzato via gli antichi privilegi, portando anche a Favara nuovi ricchi e nuovi poveri. Anche per Matteo si chiude insieme a quel portone una parte della sua vita, ora si proietta in un nuovo futuro con il suo nome e cognome,  la sua cultura e la sua umanità, i valori più importanti  per un uomo venuto dal basso, ma che avrebbe fatto ancora tanta strada. Matteo era stato temprato da tanta sofferenza: la carenza affettiva, come quando desiderava immensamente una carezza del padre, che vedeva nel barone Amodeo, tanto da imparare il mestiere di barbiere pur di toccargli il viso in una specie di carezza. Tuttavia quella barba, tanto desiderata, non c’è mai stata perché il barone, proprio quando già era arrivato il consenso, è passato a miglior vita: <<Col bacile, il pennello, il sapone da barba, nel mio vestito pulito, stavo per entrare nella camera e la governante mi fermò sulla soglia. Mi disse, poiché il vecchio era indisposto, di rimandare la barba all’indomani>>>>( tratto da “Storia di Matteo” di A.Russello,p.36 ). L’autore  in un’accelerazione temporale, attraverso una sintassi paratattica e  periodi brevi, descrive lo stato d’animo di Matteo che precipita in un baratro interiore, dovuto al consapevole approssimarsi dell’ irreparabile perdita del presunto padre :<<Poi ancora all’indomani. Fino a che mi disse che era ammalato. Seriamente ammalato. Era il cuore che cedeva>>. Eppure il giorno della sua prima Comunione, l’aveva sentito vicino: gli tremavano le gambe quel giorno, quando, essendoci l’usanza di far accompagnare ogni fanciullo da un genitore,  per lui era venuto il barone Amodeo in persona, proprio lui che Matteo vedeva con<<l’alone dei santi che s’adorano in alto su un piedistallo>>; il suo cuore sembrava scoppiasse e la particola stentava a sciogliersi in bocca e gli  si era appiccicata al palato. Oltre che per la  mancanza di un padre e di una madre, Matteo aveva sofferto anche per le umiliazioni e le mortificazioni dovute al suo cattivo odore, per il contatto con gli animali e con lo stallatico: a scuola il maestro spesso lo derideva davanti a tutti i suoi compagni per il suo odore e per gli errori di grammatica e lo metteva tra gli Austriaci e non tra gli Italiani, cioè quelli più bravi. Il dolore procurato dalle parole, talvolta, fa più male di quello fisico, ma quando andò in seminario ne ebbe abbastanza dell’uno e dell’altro: Padre Carmelo sapeva il latino e giustificava le scudisciate con il detto latino <<Dio Padre qui castigat, quem diligit>>, dicendo che avrebbero procurato beneficio all’anima e certamente a Matteo Padre Carmelo doveva volere molto bene, se una volta lo aveva frustato così tanto da farlo cadere a terra bocconi. Uscito dal seminario, anche a motivo delle frustate, la gente non risparmiava al giovane Matteo le sue frecciate pungenti <<Avevamo creduto di allevare un angelo, invece avevamo una serpe>>, come a voler punire la mancata vocazione; infatti la sua successiva mansione di allevatore di maiali ne fu la conferma. Del resto, a lui i ricchi padroni riservavano i lavori più degradanti, come Donna Carla che gli faceva svuotare il suo vaso da notte o suo marito, che gli faceva testare la virilità dei muli e seguire tutto il decorso delle nascite dei puledri. Una vita difficile, dunque, intervallata da momenti di felicità e da piccole soddisfazioni, come quando Donna Carla lo aveva prescelto per farle compagnia nelle sue lunghe cavalcate o quando Mariastella si intratteneva con lui in lunghe conversazioni, lo ammirava mentre dissertava di botanica o mentre pronunciava le sue massime latine. Anche Don Guido Faldella provava grande gioia a provocare in lui le sue battute sagaci ed argute e lo reputava molto intelligente, come gli diceva anche pubblicamente; sempre lui gli aveva affidato la contabilità dei beni e, prima di morire suicida, era andato al Tribunale di Agrigento per registrarlo col suo cognome, Faldella. Questo era stato, senza dubbio, uno dei momenti più importanti della sua vita, una rinascita, che lo avrebbe poi aiutato a fare il salto  di qualità dopo l’avvento della democrazia, in un momento storico determinante per tutta la Sicilia. Altro motivo di segreta felicità è stato, inoltre, il rapporto di complicità che si è creato con Maristella: la accompagnava per i campi, le mostrava le tenute, la sosteneva nei suoi incontri con il figlio del barone Faldella, anche nelle loro passeggiate serali, al chiaro di luna, quando doveva essere presente e assente, secondo le situazioni, in modo discreto, tanto da meritare la fiducia di entrambi: Maristella lo aveva scelto come testimone delle sue nozze e lui l’aveva accompagnata, seguendo il suo sguardo, le sue parole, i suoi sospiri fino al suo si. Matteo le era stato vicino, anche dopo le nozze quando, divenuta ormai Donna Maria, aveva bisogno di lui per salvare i suoi poderi dagli interessi dei gabellotti e quando, ahimè, dovette lasciare definitivamente la sua casa per andare a risiedere in affitto nell’appartamentino adiacente, segno dei tempi ormai cambiati. Del resto di fatti storici eclatanti Matteo ne aveva visti tanti in trentacinque anni, tanto che il romanzo potremmo definirlo a sfondo storico, proprio per i tanti riferimenti precisi  a determinati eventi storici: la presenza dei baroni e dei latifondisti, il potere di Mussolini, le leggi per il Mezzogiorno e l’obbligo scolastico, il conflitto di interessi tra i gabellotti ed i proprietari terrieri, le rivolte degli zolfatari e dei contadini, l’emigrazione di molte famiglie in America a bordo di navi che sbarcavano da Porto Empedocle, lo sbarco degli Americani e la fine dei baronati, l’avvento della democrazia ed il declino delle classi nobili. Matteo descrive i baroni come uomini di alta statura, anche morale, capaci di tante opere buone, come i doni alle orfanelle, la carità alla Chiesa e le donazioni in determinati periodi dell’anno, sebbene il più delle volte non si trattasse di gesti sentiti, ma dovuti per tradizione e per ottenere consenso e stima, nonché ubbidienza. Matteo, in qualità di amministratore per il barone Faldella, aveva sentito le lamentele dei contadini, che reclamavano paghe più dignitose per potersi assicurare il necessario, ma le loro richieste non venivano comprese dai ricchi padroni che le ritenevano volgari ed infondate: <<Alla miniera, in piazza, s’è sentito un gran pianto. Non per i morti, ma per la paga. Sono arrivati a gridare “il pane”>> >>( tratto da “Storia di Matteo” di A.Russello, p.127). Aveva assistito anche alle <<spartenze>> di tante famiglie sue conoscenti, che, con il loro fagotto sulle spalle, percorrevano la strada che da Favara portava alla Marina per andare lontano, in America, in cerca di fortuna: <<Perciò non riuscivo a capire, certe volte, perché incontravo gruppi di gente col fagotto, che dal paese per la scorciatoia di San Pietro, andavano a Girgenti e da lì alla marina. Dicevano che s’imbarcavano per l’America, erano emigranti, lasciavano il paese per fame, disoccupazione.>> >>( tratto da “Storia di Matteo” di A.Russello,  p. 34). Infine il romanzo si conclude con lo sbarco degli anglo-americani, che rappresenta anche la liberazione di Matteo dalla sua schiavitù e la possibilità di una vita migliore. L’evento cadeva in un momento in cui tutta la natura sembrava essere partecipe ed attendere il cambiamento:<< A metà luglio sbarcarono gli anglo-americani. Gli uliveti ed i mandorleti la notte, allo sbiancar dell’alba, nel tratto di sbarco tra Gela e Pachino si stupirono del tonfo silenzioso di bianchi paracadute nell’argento del fogliame>>>>( tratto da “Storia di Matteo” di A.Russello, p. 150. L’autore personifica gli alberi come fossero muti testimoni dell’improvviso arrivo dei liberatori che venivano dal cielo, mentre l’ossimoro <<tonfo silenzioso>> sta a sottolineare l’atmosfera ovattata della notte in cui si verifica l’evento. Una volta atterrati, i soldati americani faranno strategie e accordi con i locali, per intèssere relazioni e prepararsi all’attacco, cosicchè Matteo usa l’analogia della tela del ragno che <<filava poi in mucillagine da quella sostanza ingoiata che andava nella ragna del grande silenzio a formare l’Intelligence service>>>( tratto da “Storia di Matteo” di A.Russello, >. Egli stesso diventa un valido collaboratore del sergente Mike  Sammaritano, un figlio di favaresi emigrati in America, fratello di Padre Carmelo, l’unico figlio rimasto a Favara come seminarista; Matteo mostra al sergente tutti i cunicoli e gli anfratti sconosciuti ad altri, ma per lui senza misteri, cosicchè anch’egli sente di essere un liberatore. La sua vita, improvvisamente, prende un senso, tutto diventa chiaro, persino il dolore, le rinunce, l’amore incompiuto, l’orgoglio ferito, tutto converge in questo evento determinante, sconvolgente. La profezia di Don Guido Faldella , che a lui piaceva tanto ripetere, si stava avverando:<< Chi è ricco perderà tutto l’avere, e chi povero, l’acquisterà; chi studiato, non saprà nulla e chi non studiato, sarà sapiente. Di là dal mare arriverà la sventura ed il nemico sbarcherà da Puntabianca>>( tratto da “Storia di Matteo” di A.Russello, p.149 ); finalmente anche per lui ci sarebbe stata la possibilità di una vita migliore, con la democrazia non ci sarebbe più stata la servitù, si spezzavano le vecchie catene. Il libro si chiude con l’immagine dei giovani baroni Faldella che escono dal portone del loro antico e nobile palazzo e Matteo li segue con lo sguardo; di loro resta ormai solo la fierezza e la composta dignità, specialmente di Donna Maria. Matteo, invece, restava lì come amministratore e contabile, con il suo cognome, la sua cultura, la sua affidabilità, la consapevolezza di essere una persona degna e rispettabile, capace di apprezzare e gli altri, di camminare a testa alta e di guardare chiunque negli occhi con onestà e sincerità.