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La ricerca dello stile è stato il grande Rovello dello scrittore Antonio Russello.

Per capire da dove nasceva questo ‘dramma’ bisogna conoscere, in parte la vita di Antonio Russello che, nacque a Favara, dove la madre si era recata per partorire in casa della nonna. Il padre abitava in una casello ferroviario da dove poi è stato trasferito a Caltanissetta, luogo in cui Russello è cresciuto e ha frequentato le scuole per poi trasferirsi a Palermo dove ha compiuto gli studi superiori e dove si è laureato, in lettere.

Le sue prime letture sono stati i romanzi popolari come “Il Fornaretto di Venezia”, “Marin Foliero”, “Il ponte dei sospiri”, che comprava nei barbieri.

A Palermo è avvenuto il salto di qualità sotto la guida del Professore Agrigento e ha incontrato quindi Alfieri, i veristi siciliani, Pirandello, la letteratura europea dell’800, la letteratura sud americana e così via.

La sua passione per la lettura è stata grande tant’è che si sentiva un poco estraneo rispetto a tutti gli altri suoi compagni che non amavano la lettura.

Il suo livello culturale non era comparabile con quello dei suoi compagni di classe.

I suoi primi tentativi di scrittura  li ha dedicati alla stesura di opere teatrali e alla poesia, cose che pi ha bruciate.

Quindi è esploso in lui il virus della scrittura che lo ha portato alle porte del grande successo con “La luna si mangia i morti” pubblicato da Vittorini e Con “Storia di Giangiacomo e Giambattista” pubblicato da Flaccovio che, nel 1970, è stato finalista al Campiello.

La sua stella si è offuscata e si è dovuto accontentare di pubblicare con piccole case editrici che non riuscivano a sfondare il mercato editoriale nazionale.

Scrisse a tal proposito: “Vicenda di un autore pervicacemente appartato, in urto con leggi e riti del mercato editoriale, e nondimeno ostinato nel continuare a trasferire il suo mondo in pagine scritte solo per la costituzione di un privato archivio memoriale…” (…) “Ben gli si attaglierebbe perciò la definizione di scrittore “Postumo in vita” di testimone di una sparizione, del sé dal mondo, ma anche dal mondo a se stesso”.

Nel mancato successo di Antonio Russello può avere influito la sua scrittura “impervia” , ma, a nostro avviso, le ragioni sono ben altre e vanno esaminate attentamente in altro luogo, cosa che io rimando alla ricerca dei giovani studiosi.

Lui si rendeva conto che la sua scrittura era “impervia”.

E questo lo ha detto nel suo libro più difficile e che reputava il migliore. Lo aveva abbandonato; però un giorno l’attore Sergio Sartor gli lesse alcuni brani di questo scritto e lui si incantò ad ascoltare: “Ecco che sento l’amico leggere i due primi capitoli. Tutti m’avevan detto ch’ero scrittore difficile e detto anche: ‘perché non sei semplice e vai nel difficile?’ E l’amico, quel libro, dal modo di leggerlo, lui solo me lo fece capire a me stesso. Ecco il segreto, mi dissi. La scuola italiana non ha mai educato alla lettura. Incoraggiato dal mio amico e perciò deciso a non buttar via il libro tra quelli miei da me stesso rifiutati (cosa che per me veniva prima degli stessi rifiuti editoriali)  mi misi a pensare cos’era questo mio “Rovesciano”. Che se aveva superato l’esame d’esser perfino leggibile, mi ero fermato in una prima mia considerazione che fosse il libro più originale da me scritto che si doveva trovarne il senso proprio in quella difficoltà dello stile, in quella forma sostenuta, àulica di ampie allocuzioni, di periodi ellittici in figura di costellazioni e di galassie astrali, e di capire uno scrittore che non aveva mai trovato la terra promessa(…) Poi c’era da capire se ciò che accadeva al personaggio Rovesciano, accadeva nel senso dell’attualità, della contemporaneità e dell’impegno sociale ovvero della critica impegnata. E quanto più sentivo essa dominare e condizionare la repubblica delle lettere, tanto più mi sentivo divinamente inattuale, incontemporaneo, improbabile, antisociale…”.

Russello aveva capito che il mondo cambiava. Nel 1860 con la venuta di Garibaldi e con l’unità d’Italia era cambiato tutto per non cambiar nulla. Con la seconda guerra mondiale nel mondo è cambiato tutto. “la guerra cessata da più di 10  anni, scriveva Russello ne ‘La vita’ , e cancellato tutto il passato, essa, sui vecchi libri e stili ne aveva fatto nascere di nuovi e di diversi”(La vita).

E dice ancora nello stesso scritto “ volevo uscir fuori dall’isola, avere ispirazione più ampia, con la fantasia cercavo d’aprirmi verso l’Europa cercavo il modello d’una forte individualità l’incarnazione d’una grande idealità e moralità e che fosse questo stesso, un bisogno in me di una espansione nell’universo”.

Ed ecco l’infatuazione per Shakespeare. E’ andato a vedere l’Amleto con la scuola e annotava sempre ne ‘La vita’ : “Non ho idea di quello che sentii ascoltando per la prima volta un dramma di Shakespeare, ma quel fondale nero della scena, quei tendaggi color cremisi e scarlatto, il cimitero ed Amleto col teschio in mano, dovettero lasciarmi nell’animo una evocazione mai spenta, dovuta credo, alla comunicazione d’un linguaggio tutto frizzi, wit buffonesco, uscite popolari, doppi sensi, giochi di parole, allitterazioni che rendono l’antico parlar del poeta inglese, contemporaneo a quello nostro e sempre attualissimo.

Russello non considerava la lingua imbalsamata. Sa che cambia con il cambiare dei tempi, degli usi, dei costumi, soprattutto col cambiare delle dominazioni. Nel libro ‘Venezia zero’ uscito di recente col titolo ‘La danza delle acque. A Venezia’ ha adottato questa epigrafe tratta ‘da un libro’: “La nostra lingua ci appartiene e al tempo stesso non ci appartiene più: la rifacciamo continuamente”.

La lingua si costruisce continuamente come una casa. Ecco cosa disse il Maesto Mulè a Matteo in ‘Storia di Matteo’ : “I pensieri si fanno con le parole messe al posto giusto, ora i tuoi temi sono mezzi italiano e mezzi dialetto e gli manca il nerbo, questo ( mi mostrava la verga e cioè la grammatica, la sintassi. Hai visto come costruiscono una casa? E’ lo stesso del tema. Se non ci sono gli operai-parole, la manovalanza al posto più basso che porta i massi, la calce da un punto all’altro; se non c’è la maestranza più in alto, gli operai-grammatica…e poi se non c’è al punto più alto anora l’ingegnere sintassi che ha fatto il disegno della casa ( la scolaresca calava la testa) figlio mio, se facciamo come fai tu che mandiamo all’aria la lingua (…)

Cosa accadrebbe se mandiamo in aria la lingua, senza capirci fra noi italiani?”

Ritorneremmo ai tempi preunitari quando ognuno parlava il suo dialetto e gli italiani non si capivano tra di loro.

E Russello, scrittore siculo-veneto, siciliano di nascita e veneto nel cuore ha studiato i due dialetti e ne ha messo in risalto le differenze.

Disse del siciliano in ‘Finestre sul Canal Grande: “ Lingua forte e non vocalica e molle d’acqua, con i verbi messi all’ultimo della frase, come radici che reggessero in alto le proposizioni che sono il tronco, i rami e le foglie”.

E il gondoliere, “mormorò parole, in dialetto, acquatiche, dove le vocali s’aprivano di più sulle consonanti. Mentre nel dialetto siciliano (disse poi Gregorio) era il  lcontrario, la forza delle consonanti che s’apriva sulle vocali”.

Dunque lingua molle, acquatica e vocalica solamente e non consonantica, quella veneta.

“Tuto el mondo se moe el vive, i osei canta, le aquile le svola, eco che i cani i baia).

Il linguaggio, dice Russello, cambia in situazioni diverse come in stato di rabbia ma in Sicilia “la lingua è anima…qui non siamo staccati con la lingua dalle cose. Le stesse cose, le pietre, il caldo, il sudore, il piangere, il ridere, il gesticolare, sono la lingua. L’anima perciò non l’abbiamo”.

E Russello, per quanto attiene la lingua, è rimasto scrittore siciliano ‘impervio’e noi concludiamo questo nostro scritto affermando che la sua prosa è stata veramente eccezionale, ricercata e frutto di una grande cultura umanistica vissuta sui banchi di scuola ed assimilata nell’aria che si respira nella terra della Grecia antica. In lui prevaleva il linguaggio figurato, la construtio ad sensum, i latinismi con i verbi all’ultimo o costruzione inversa, le metafore (gli feci la faccia di sangue), gli anacoluti (quegli ulivi, spiegò, ce n’hanno ammazzati tre), i pleonasmi, l’anafora o il cosiddetto uso della ripetizione o del raddoppiamento. Molto usata l’ellissi del soggetto o del predicato; troviamo la virgola come forma di disgiunzione e questo per raggiungere un effetto particolare o per mettere in rilievo i personaggi che più gli interessavano nella economia del racconto (Verdone, gli altri, andarono in cerchio a togliere il velo sopra la cesta, a guardare quel miracolo di bellezza).

C’è poi il linguaggio parlato che ci riporta al verismo verghiano: la rama, la pampina, erano felici come la pasqua, è inutile che ti pettini e ti lisci, il conto che ti fai non ti riesce, il boiacane che sentiamo pronunziare molto spesso.

La nostra lingua ci appartiene, dice Russello, e al tempo stesso non ci appartiene più perché la rifacciamo continuamente nell’usarla ed egli l’ha rifatta con grande mestiere e grande professionalità, a tal punto da far dire a una scolaresca guidata dalla Professoressa Carmelina Romei: “Impervia, scomoda, disueta, creativa, impopolare, raffinata, intellettuale, graffiante, ironica, cruda, magica, barocca, colloquiale, aspra, musicale, ognuno di questi aggettivi può definire la prosa di Antonio Russello.

La prosa di Sciascia era asciutta, quella di Bufalino umida, quella di Russello umida e impervia.

Ne sapremo di più quando verranno pubblicati tutti gli inediti.

Agrigento, l’ 13.12.2018

Gaspare Agnello