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Lo scrittore Nino Savarese, nato a Enna nel 1882, è stato uno dei principali scrittori del ventennio fascista ed esponente di spicco del rondismo. Scrisse “I fatti di Petra”, “L’Altipiano”, “Malagigi”, “Gatteria”, “Storia di un brigante”, “Rossomanno, Cronachette del’estate 1943, “Il capo popolo”.

Dopo la sua morte fu completamente dimenticato. E a tal proposito, scrive Marcello Bonfante: “ Già nel 1955, in un fascicolo di ‘Galleria’, la rassegna bimestrale di cultura edita da Salvatore Sciascia, Arnaldo Bocelli lamentava l’ingeneroso oblio ( se non proprio in sede critica, in quella ‘editoriale’) in cui era caduto Nino Savarese a soli dieci anni dalla scomparsa”, avvenuta a Roma nel 1945.

Leonardo Sciascia che, oltre ad essere il grande scrittore che tutti conosciamo, è stato un acutissimo critico letterario, capì l’importanza della scrittura di Savarese tant’è che, dal libro ‘I fatti di Petra’ ricavò il toponimo Regalpetra, “chiaro omaggio, scrive Ferlita, allo scrittore ennese, come avrebbe egli stesso ammesso”.

Dopo Sciascia si riaccendono i riflettori su Savarese, ma bisognò aspettare la casa editrice “Il Palindromo” per vedere ristampati i suoi libri.

Nel gennaio 2017 viene ristampato “I fatti di Petra” con la prefazione di Salvatore Ferlita, nel febbraio 2018 “Rossomanno” con la prefazione di Marcello Bonfante.

Ed ora si completa la trilogia con la pubblicazione del romanzo storico “Il  Capo Popolo” con la prefazione di Goffredo Fofi.

In questo libro Savarese racconta di Giuseppe D’Alesi che capeggiò la rivolta dei palermitani contro il Vicerè, avvenuta nel 1646.

In quel tempo le condizioni economiche della Sicilia, governata dal Re di Spagna, erano assolutamente disastrose. La nobiltà vessava i suoi sudditi con balzelli di tutti i tipi per cui, non di rado, scoppiavano tumulti che venivano regolarmente repressi con violenza.

Anche Enna ebbe la sua rivolta avvenuta nel 1626 con l’assalto al Castello e la liberazione di detenuti,di cui parla Eugenio Amaradio nel suo libro “Cosi mai visti né ‘ntisi”

I palermitani, stanchi di pagare gabelle e balzelli vari, che li riducevano alla fame, si ribellarono a questo stato di cose e Giuseppe D’Alesi assunse la guida di questa rivolta, dopo avere ucciso Pietro Pertuso che gli contestava il premierato.

Il Capitano Generale volle condurre una rivolta senza spargimento di sangue e con un grande senso di religiosità. Per dirla con un termine moderno, volle fare una rivoluzione ‘non violenta’.

Frenò gli istinti della folla, convocò gli stati generali con le maestranze, il popolo, ma anche i senatori e i nobili. Fece approvare i capitoli con i quali si riconoscevano i diritti di coloro che conducevano le terre dei nobili e si stabilì che il frumento dovesse uscire dai magazzini dei nobili per potere panificare e dare pane a tutti.

Savarese certamente avrà studiato le carte di quella rivolta e descrive i personaggi e le vicende con molta maestria mettendoci, evidentemente del suo.

Descrive un D’Alesi intento ad evitare spargimento di sangue, a rendere giustizia a quanti erano stati sempre oppressi.

Il D’Alesi vive un dramma terribile e cerca conforto nella religione e quindi in Dio chiedendo aiuto e protezione divina.

Evidentemente non aveva studiato “Il Principe” di Macchiavelli e non capì che non ci poteva esser una rivoluzione senza spargimento di sangue.

Non capì che i nobili non potevano sottostare a un popolano e che il Vicerè venisse scacciato dai suoi palazzi reali, che venissero intaccati gli antichi privilegi dei Baroni e dei signorotti che governavano la Sicilia.

Il D’Alesi forse aveva le condizioni favorevoli per diventare il Governatore della Sicilia e scrivere una grande pagine di storia.

Questo però non poteva avvenire pacificamente.

Per cui la nobiltà finge di collaborare con il Capitano Generale, gli offre doni importanti, prebende, cariche, approva i capitoli ma al momento opportuno organizza le sue forze e muove lo stesso popolo, che aveva sostenuto la rivoluzione, contro il D’Alesi che, molto in ritardo, si accorge di avere sbagliato tutto perché avrebbe dovuto fare piazza pulita di tutto il vecchio potere tagliando le teste dei baroni.

Del resto lui aveva tagliato la testa di Pietro Pertuso per cui non si vede la ragione per la quale non doveva tagliare la testa dei nobili.

La rivoluzione ‘non violenta’ fallisce e vengono tagliate le teste a Giovanni D’Alesi, al fratello Francesco, viene ucciso le zio e la madre e la sorella vengono bandite da Palermo e da Petralia che era il loro paese di origine.

Savarese, come abbiamo detto, si attiene ai fatti storici, però lui scrive un romanzo  e riesce a descrivere i luoghi, le condizioni economiche del tempo, il dramma di una siccità che riduce alla miseria e alla fame una intera comunità.

Entra nel cuore dei personaggi e scandaglia i loro sentimenti portando il lettore ad appassionarsi alla loro condizione.

Giuseppe D’Alessi viene descritto come un uomo tormentato, un giusto che vuole fare giustizia a favore degli umili e che si rende conto dell’enormità del peso che lo sovrasta.

Mariangela D’Alesi, mamma di Giuseppe, assume la dimensione della Madonna che vive il dramma della morte del figlio che si immola per il bene dell’umanità.

Altro drammatico personaggio è Lia la sorella di Giuseppe che non si ubriaca del potere del  fratello e che invece paga un prezzo molto alto riducendosi a fare la cameriera in una famiglia di nobili.

Savarese, come dice Bocelli, supera il Rondismo, a volte eccessivamente formalistico, grazie a un contenuto ricco di ‘pietas’ e di lucida coscienza critica.

“La pagina di Savarese, perfetta nel controllo stilistico ed espressivo, vibra di una verità e di una partecipazione umana che subito escludono ogni sospetto di artificiosa levigatura. E, al tempo stesso, nulla vi è di sciatto e di abbozzato, ma ogni parola sembra selezionata ad arte, con uno scopo preciso che illumina un senso complessivo per lo più doloroso e pieno di stupore.

C’è infatti una moralità profonda, e quasi nascosta, nell’opera di Savarese che è tutt’uno con il lindore della prosa e il suo splendore apparentemente superficiale.

Ed è pure una soffusa religiosità che convive con una mitografia terragna e con un senso del magico e del mistero naturale”

Quest’ultimo giudizio, che abbiamo preso di peso dalla prefazione Di Marcello Bonfante al nuova pubblicazione di Rossomanno, è il giudizio più bello e più giusto sulla prosa e sulla letteratura di Nino Savarese.

Oggi la piccola editoria sta svolgendo un grandissimo ruolo di riscoperta delle nostre grandi radici culturali ed avere investito sulla trilogia di Nino Savarese è un atto di coraggio che la cultura militante deve premiare.

Agrigento, lì 6.2.2019

Gaspare Agnello