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Frequento L’Altopiano di Asiago da circa quaranta anni e per creare un rapporto personale con la scrittore Mario Rigoni Stern (blog) ho proposto al Presidente Leonardo Sciascia di premiarlo al Premio Letterario Racalmare Città di Grotte. La risposta di Sciascia fu secca e senza nessun appello: “ma Rigoni Stern è uno scrittore?”.

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Non se ne fece nulla e questo mi impedì o meglio mi inibì di fare una visita allo scrittore di Asiago che restava sempre nella mia mente in quanto il mio cugino Calogero Agnello (nella foto), figlio dello zio Calogero, fratello di mio padre, è stato un disperso in Russia nel conflitto mondiale ultimo, di cui fu protagonista il Sergente Maggiore Rigoni Stern.

Il secco giudizio di Sciascia mi ha tenuto lontano dagli scritti dello scrittore di Asiago.

Ma il mio rapporto con il Veneto è continuato costante nel tempo, mi sono innamorato delle prealpi venete, delle vette dolomitiche, del verde meraviglioso di quelle pianure, della neve di Asiago dove ho imparato a sciare sul monte Kaberlbaba e sulla cima Eikar, fino a che alcuni amici mi hanno invitato a tenere una conferenza sulla letteratura siciliana del ‘900, organizzata dai comuni di Chiuppano e Carrè e dalla accademia 25 aprile. La data della conferenza è stata fissata il giorno 16 giugno 2009, data che coincide con il primo anniversario della morte di Rigoni Stern. Questo mi ha indotto a iniziare la conferenza con la commemorazioni di Rigoni Stern ma me ne sono vergognato perché non avevo letto nulla dello scrittore che ricordavo ai veneti.

La domenica successiva mi sono trovato in una piazza di Asiago dove si svolgeva un mercatino di antiquariato e vi ho trovato il libro di Rigoni Stern “Il sergente sulla neve” in una stampa del 1974 che riproduce la seconda edizione del 1953 e che era appartenuto a un certo Folegatti Gabriele.

Mi sono messo subito a leggere il libro con grande interesse e passione forse, anche perché, cercavo qualche indicazione che mi riportasse all’autiere Agnello Calogero, ma il racconto non mi ha lasciato spazio n è tempo per riflettere. Gli avvenimenti della campagna di Russia raccontati dal Sergente nella neve mozzano il fiato e tengono il lettore legato quasi come in un libro giallo non tanto per vedere come finisce ma per sapere quando si esce dalla “tormenta” come se ne esce e chi ne esce.

“La guerra è nera” dice il poeta Barbone Bernardo Quaranta ma qui la guerra è bianca, gelida e bisogna combatterla su due fronti: quello delle bombe che uccidono e quello del freddo che congela e quindi assidera e la speranza del ritorno è veramente un miraggio. Infatti Giuanin rivolgendosi al suo comandante di plotone gli dice: “Sergentemaggiù, ghe rivarem a baita?”

Giuanin non rivedrà mai più la sua baita perché resterà in mezzo alla neve della steppa tra le isbe russe che molte volte hanno offerto riparo, cibo e caldo ai nostri poveri soldati costretti a combattere una guerra di aggressione in un territorio totalmente ostile.

Il libro descrive prima la guerra di “posizione” in un caposaldo con gli italiani che si fronteggiano con i russi, dove si sparacchia e qualche volta tra nemici ci si comprende e quindi la “ritirata” che diventa una marcia defatigante o verso la salvezza o verso la morte.

Parlare di questa ritirata diventa impossibile per un critico letterario che ha il dovere di rimandare il lettore al libro per comprendere nella giusta misura il dramma vissuto dai nostri soldati in quella terribile guerra e per gustare la naturalezza del racconto che, può o non può diventare opera letteraria, ma che certamente rappresenta uno di più belli diari di guerra della nostra letteratura.

Non è casuale il successo del libro che si erge a monumento contro tutte le guerre che disumanizzano gli uomini.

Il sergente va avanti o meglio indietro, per il suo grande spirito combattivo, perché incita i suoi a stare sempre uniti, perché non abbandona mai le armi anche se è difficile portarle a spalla in mezzo alla neve e alla tormenta, perché ha voglia di riveder la baita.

“Di’ Rigoni, che desidereresti adesso?”, gli dice il tenente Cenci. “Sorrido, sorridono anche loro. La sanno la risposta perché altre volte l’ho detta camminando nella notte.-

Entrare in una casa, in una casa come le nostre, spogliarmi nudo, senza scarpe, senza giberne, senza coperte sulla testa; fare un bagno e poi mettermi una camicia di lino, bere una tazza di caffè-latte e poi buttarmi in un letto vero con materassi e lenzuola, e grande il letto e la stanza tiepida con un fuoco vivo e dormire, dormire e dormire ancora. Svegliarmi, poi, e sentire il suono delle campane e trovare una tavola imbandita: vino, pastasciutta, frutta: uva, ciliegie, fichi e poi tornare a dormire e sentire una bella musica.”

Ma l’ultima terribile musica al sergente Rigoni gliela hanno suonata i russi con le loro armi. E’ il 26 gennaio 1943. “I miei più cari amici mi hanno lasciato in quel giorno.

“Di Rino, rimasto ferito durante il primo attacco, non sono riuscito a sapere nulla di preciso. SUA MADRE E’ VIVA SOLO PER ASPETTARLO. La vedo tutti i giorni quando passo davanti alla sua porta. I suoi occhi si sono consumati. Ogni volta che mi vede, quasi piange per salutarmi e io non ho il coraggio di parlarle. Anche Raul mi ha lasciato quel giorno. Raul, il primo amico della vita militare. Era su un carro armato e nel saltar giù per andare ancora avanti, verso baita ancora un poco, prese una raffica e morì sulla neve. Raul, che alla sera prima di dormire cantava sempre: “Buona notte mio amore”. E che una volta, al corso sciatori, mi fece quasi piangere leggendomi IL LAMENTO DELLA MADONNA di Jacopone da Todi. E anche Giuanin è morto. Ecco Giuanin, ci sei arrivato a baita. Ci arriveremo tutto. Giuanin è morto portandomi le munizioni per la pesante quando ero giù al paese e sparavo. E’ morto sulla neve anche lui che nel ricovero stava sempre nella nicchia vicino alla stufa e aveva sempre freddo. Anche il cappellano del battaglione è morto: “ Buon Natale, ragazzi, e pace”. E’ morto per andare a prendere un ferito mentre sparavano. “ State sereni e scrivete a casa”. “Buon Natale, cappellano” E anche il capitano è morto. Il contrabbandiere di Valstagna. Aveva il petto passato da parte a parte. I conducenti, quella sera lo misero su una slitta e lo portarono fuori dalla sacca. Morì all’ospedale di Carkof. Sono andato a casa sua, quando ritornai in primavera. Ho camminato attraverso i boschi e le valli: “Pronto? Qui Valstagna parla Beppo. Come va paese?” E la sua casa era vecchia e rustica e pulita come la tana del tenente Cenci. E soldati del mio plotone e del mio caposaldo quanti ne sono morti quel giorno? Dobbiamo restare sempre uniti, ragazzi, anche ora.

Il tenente Moscioni si ebbe bucata una spalla e poi in Italia la ferita non poteva chiudersi. Ora è guarito della ferita ma non dalle altre cose. Oh no, non si può guarire. E anche il generale Martinazzi è morto quel giorno. Lo ricordo quando in Albania lo accompagnavo per le nostre linee. Io camminavo in fretta davanti a lui perché conoscevo la strada e mi guardavo indietro per vedere se mi seguiva. “Cammina, cammina pure in fretta caporale, ho le gambe buone io”. E anche il colonello Calbo che era così bravo con i suoi artiglieri della diciannove e della venti. E anche il sergente Minelli era ferito lì nella neve:- El me s’cet, – dice e piangeva,- el me s’cet-. Giuanin, troppo pochi siamo arrivati a baita, dopo tutto. Nemmeno Moreschi è ritornato. “ Possibile una capra di sette quintali? Porca la mula sempre macedonia”. Neanche Pintossi, il vecchio cacciatore, è arrivato a baita a cacciare i cotorni. E sarà morto pure il suo vecchio cane, ora. E tanti e tanti altri dormono nei campi di grano e di papaveri e tra le erbe fiorite della steppa assieme ai vecchi delle leggende di Gogol e di Gorky. E quei pochi che siamo rimasti dove siamo ora?”

Anche l’autiere Agnello Calogero non è arrivato a baita e“dorme nei campi di grano e di papaveri e tra le erbe fiorite della steppa” e “ sua madre è viva solo per aspettarlo…i suoi occhi sono consumati”.

Maestro Sciascia tu sei stato oltre che scrittore un grande critico letterario e certamente devo convenire che Mario Rigoni Stern non si può annoverare tra i grandi scrittori del novecento italiano, ma è uno che con la sua penna scorrevole e leggiadra ha eretto un monumento alla crudeltà della guerra per ammonire le genti a non impugnare mai più le armi.

Rigoni ha scritto, senza volerlo, un monumento contro il fascismo e le dittature che conducono a guerre folli e senza senso. E per questo merita che gli venga concesso “Honoris causa” il “PREMIO LETTERARIO RACALMARE CITTA’ DI GROTTE”.

Del resto premiando in Sicilia “Il sergente nella neve”, premiamo il grande Elio Vittorini che, quando ebbe tra le mani il corposo manoscritto di Rigoni Stern composto da circa quattrocento pagine lo buttò tutto giù e impose una stesura più snella e leggera capace di diventare una narrazione godibile per poter raggiungere il grande pubblico, cosa che poi avvenne. “Vittorini, dice Lalla Romano, era uno scrittore che insegnava agli altri ad esserlo, correggendo, suggerendo, tagliando. Era uno scrittore pedagogo, non un correttore.”

Quindi una buona parte del successo del primo libro di Rigoni Stern (su twitter) si deve ai suggerimenti del siracusano Elio Vittorini.

Presidente Sciascia, so che condividi quello che ti dico e quando andrò ad Asiago porterò questo scritto sulla tomba del Sergente Mario Rigoni Stern a nome e per conto dello scrittore di Regalpetra Leonardo Sciascia.

Agrigento, lì 4.7.2009 gaspareagnello@virgilio.it

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