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Nicoletta Bona è una primipera che ha dato alla luce il suo primo romanzo “IL MIO DIO E’ NERO” edito dalla casa editrice Aulino di Sciacca.

E affermiamo immediatamente e senza alcun tentennamento che il parto è riuscito perfettamente rivelandoci una scrittrice che, alla sua prima opera,ha dimostrato mestiere e capacità narrative non comuni.

Lei è una donna di teatro e ama definirsi ‘teatrante’ e questo lo si evince subito dalla narrazione che è tutto uno svolgersi di momenti scenici emozionanti con una fantasia così fervida da superare le invenzioni del vecchio Camilleri che catapulta il suo Commissario Montalbano in situazioni impensabili e straordinarie.

Basta leggere le prime due pagine per vedere come viene descritta nei minimi particolare una scena che potrebbe essere l’inizio di un film o di una azione teatrale. Descrive in maniera magistrale la sua malandata mansarda e il luogo dove si trova:

“Era un vecchio attico al’angolo tra due viali anonimi di una zona cittadina dimenticata dagli uomini e da Dio, celata timorosamente da chiome frastagliate di alberi secolari.

Quella porzione di una piccola città logora e sconfitta dal branco selvaggio degli artisti di strada, falliti e assetati di una bellezza così straordinariamente viva dentro loro, ma anche così maledettamente spenta e svanita nel fondo di una bottiglia di vodka o nei granelli vigliacchi e assassini della polvere bianca, era diventata ormai il rifugio sicuro per Sara, in evidente contrasto con la mancanza assoluta di sicurezza che quel postaccio invivibile poteva dare”.

Il libro della Bona parla di una pittrice, Sara, del suo amore per l’arte che la riscatta e questo ci riporta immediatamente ad un altro libro di grande spessore “L’uomo che veniva da Messina” Ed. Giunti di Silvana La Spina con il quale si trovano tantissime assonanze sia per quanto attiene il concetto dell’arte e sia per  i drammi dei due personaggi che tanto hanno in comune.

L’opera di Nicoletta Bona ci fa venire in mente la maledizione dei grandi artisti quali Caravaggio, lo stesso Antonello da Messina, Ligabue, i poeti ‘maledetti’, i pittori bohemienne delle mansarde parigine di fine ottocento, primi novecento.

La nostra Sara ha su di sé la maledizione del vivere,  ha una paternità incerta, due genitori che l’avrebbero abbandonata, una zia che la adottata e la dà in pasto al fantomatico zio Riccardo che la abusa. Quando zia Caterina le annuncia la morte di zio Riccardo lei “Rivede gli spettri maligni che angosciavano le notti di una ragazzina che non sognava più. Il buio di quelle notti non era rassicurante e liberatorio, diveniva per lei un’enorme nube nera impenetrabile e mostruosa, che schiavizzava, la soffocava e assumeva forme reali, sempre più vere…e ancora di più fino a sentirla addosso pesantemente, con i suoi mille viscidi tentacoli che la imprigionavano con una forza brutale da impedirle di gridare forte la sua disperazione, come una morsa che le comprimeva la gola fino a bloccarle il respiro. ‘Se urli ti ammazzo!’ E Sara non urlava. Ordinava al suo corpo di non ubbidire alle direttive meccaniche auto-difensive che l’emisfero cerebrale le impartiva, lo violentava e lo lasciava violentare, staccandosi con la mente e guardandosi soffrire, come in una scena macabra di un film. Udiva quell’ansimare affannoso e guardava il mostro sciogliersi nel magma infuocato, grondante dalla sua bocca: una ventosa che si attaccava ai seni acerbi con repellente vischiosità, risucchiandola in un vortice infernale che girava e girava… E vedeva gli artigli affilati, taglientissimi che la laceravano tutta. E poi il dolore della piccola Sara, lo vedeva lì, palpabile, straziante e strozzato, prima localizzato e poi diffuso in tutto il corpo.

E infine, lo stridore di uno zip e…più niente! Solo una porta che si chiudeva alle spalle di un essere ripugnante, come il ratto di fogna che si lecca i baffi melmosi, sprigionandosi dalla grata farrugginosa”.

Sara trova conforto solamente nel sottobosco della società, in quelli che non ostentano, in Gina che gestisce  un’osteria di ubriaconi.

La stessa Sara dice “Ho conosciuto troppa gente durante la mia miserabile vita: topi di fogna pronti a vendersi il culo per pochi grammi di lurida roba, gente pervertita, vecchi porci maniaci, che per scoparmi mi hanno strapagato dei quadri orribili, inanimati, come fossero opere d’arte; ho incontrato la morte nei veleni di ogni genere, sono finita nelle sudice fogne e sono riemersa per poi ricaderci e riemergere ancora…”

Nei momenti terribili della sua vita si rifugiava nella sua malandata mansarda e dipingeva “ Bocche grandi come crateri che alitavano l’aria meschina e ripugnante, rigettata da folate di vento che odorava di tempesta. Ma con la stessa magnifica ispirazione e quasi contemporaneamente con l’uguale rapidità di suggestioni che vanno e vengono, creava, in un’altra tela, un nuovo spaccato di vita, che aveva in sé la bellezza e la luminosità delle cose, quasi ad esorcizzare le brutture che le logoravano lo spirito”.

L’artista, si sa, può risalire dalla fogna verso la luce attraverso l’arte  che opera la catarsi nella sua anima e la trasformazione rigenerante come una specie di metempsicosi.

Sara si salverà e del resto lo aveva predetto l’oste Gina che le dice: “ L’ho capito subito, che nonostante l’apparenza, un po’…malandata…non sei come quelle povere ragazze, perse che vedo ogni tanto da queste parti per farsi una dose di veleno! I tuoi occhi non sono spenti come i loro, nei tuoi occhi c’è una luce viva e piena di speranza”.

Sara è come Scampolo della commedia di Niccodemi del 1934 e filmata nel 1953.

Scampolo era come certi gabbiani che vivono nello stagno, lo sorvolano e non si sporcano mai.

E a Paolo, che la vuole sfruttare e di cui lei si serve per sfogare i propri istinti erotici, dice: “Sarò una stupida illusa idealista che probabilmente morirà di fame come mio padre…ok!  Ma nei miei quadri ci metto l’anima, io! Quelle tele rappresentano la mia maledetta vita, i miei fottuti desideri, le mie speranze, i miei sentimenti… quelli che tu vuoi barattare con un’ora di sesso! Non voglio la tua sporca elemosina, né quella dei tuoi pseudo mercanti d’arte e tantomeno tollero la tua pietosa compassione! La mia anima non è in vendita…”

“…Tu vuoi distruggermi le illusioni, ma gli ideali no! Quelli non li tocchi. L’anima dell’artista non si vende e non si compra e soprattutto non si richiede a comando! L’arte consiste nella capacità di cogliere l’immediatezza di un attimo speciale che provi e che vuoi esternarlo per renderlo vivo e immortale. Questo è quello di cui sono convinta e non voglio sfondare, voglio solo condividere le mie emozioni con chi ha la mia stessa sensibilità…”

Ma perché l’arte possa avere forza rigenerante deve essere concepita non come mestiere ma come linfa vitale dell’anima.

“L’arte, diceva lei, ‘non si può insegnare né imparare, la tecnica sì, il colore sì, l’anatomia delle cose sì il resto no! Il modo con cui si concepisce il mare, il cielo, lo stelo di un fiore o un albero spoglio, sono creature informi che nascono dentro di te, le realizzi con le mani ma le crei col cuore. E’ il potere straordinario di visione che è in noi a far assumere forme concrete alle astrazioni…”

Sara è una grande artista, un’anima delicata  che vive contro ogni convenzione sociale e non è capace di scendere a compromessi per cui il suo destino diventa sempre più amaro e nero, come il Dio nero a cui si affida, un Dio che non ha nulla di convenzionale che ha il volto della crocefissione di Antonello da Messina che a sua volta lo ritrasse da un povero disgraziato esposto alla gogna per ben tre giorni.

Rifiuta le concezioni religiose della madre che aveva ereditato, a sua volta, da sua madre ‘ un groviglio inestricabile di valori cristiani tanto confuso e dogmatico quanto misterioso e affascinante.

“Il mio dice Sara è un Dio della speranza, della pietà vera, della quiete dopo la disperazione, della lotta per il giusto non di comodo. Il mio è un Dio che incontri nei bassifondi dove c’è miseria e morte, è quello che vedi negli occhi dei disgraziati, di chi chiede aiuto per uscire dall’emarginazione, per liberarsi dalla sopraffazione dei potenti che hanno eretto templi della preghiera blasfema…il mio Dio è  nero”.

Questa donna cercherà il riscatto in questi suoi principi che sono fuori dalle convenzioni, cercherà il riscatto nella sublimazione dell’arte e noi non vogliamo togliere al lettore il piacere della scoperta e ci limitiamo a non andare oltre nelle nostre considerazioni che poi sono le considerazioni della protagonista e certamente dell’autrice di questo libro che noi abbiamo visto come un’opera teatrale con tantissimi colpi di scena che inchiodano il lettore alle pagine che si finiscono in poche ore perché il libro è snello e il modo di narrare  molto spigliato e con un linguaggio giovanile. Non partliamo del ruolo di Steve Jhon il gallerista nero come il Dio nero di Nicoletta, né del colloquio finale di Sara con la madre che il lettore deve scopre da sé.

C’è tanto eros in questo libro, quell’eros che confina con l’arte della pittura, perché dipingere, anche per Antonello da Messina, è come compiere un atto sessuale. “Per un pittore, si legge nel libro di Silvana La Spina,  porte del colore è carne viva, sangue, dolore e gioia, muco e mestruo…Quando la spande prova un brivido, il membro si inturgida.

Per un pittore tutto è lussuria, per un pittore ogni gesto è carnale…anche il semplice gesto di dipingere”.

Queste considerazioni ci fanno capire perché Sara è perseguitata e assetata di sesso.

 

E’ chiaro che da questa narrazione si può trarre, come abbiamo detto, una piece teatrale. Le scene sono già belle e descritte nei quadri.

E del resto è la stessa pittrice che lo afferma quando guardando un suo dipinto dice:

“Era una magia di particolari riportati minuziosamente in tutto il loro splendore vitale. Osservò quel piccolo villaggio, con le strade ripide come scale, con le case strette l’una all’altra, patinate di un grigio tenero e di un’ocra soave, ammantati di rampicanti variopinti e spruzzati di palpitante argento mitico degli uliveti, sottostante una terra verde come le foglie di un vigneto sotto il sole del tardo pomeriggio. In alto, ombrato di nuvole rade, s’intravvedeva il campanile  festoso di una chiesa il cui rintocco era quasi percettibile e dall’arco, sotto il tetto triangolare, una lucina bluètte rifletteva l’immagine minuscola di un cristo nero”.

Un’opera prima così piena di significati, così ben congegnata è difficile trovarla e noi ci convinciamo sempre che i grandi libri non si trovano nella classifiche dei più venduti, ma negli scrittori sconosciuti che li scrivono con il cuore e non per esigenze di mercato.

E il libro della Bona è scritto con il cuore e con tanta arte e merita un giusto successo che, del resto, sta avendo.

L’unica perplessità che ci è venuta fuori, oltre ai pochissimi refusi dovuti alla mancanza del correttore di bozze, è il tono un poco rosa delle ultime pagine, ma certamente l’autrice ha preferito così o per amore del personaggio o per amore del lettore, ma questo non guasta.

Vogliamo concludere queste notazioni pensando a Leonardo Sciascia a cui, verso la fine degli anni ottanta del secolo scorso abbiamo detto che il libro di una scrittrice di Licata non ci era dispiaciuto. Sciascia giustamente ci disse: aspettiamo il secondo libro.

Il secondo non arrivò anzi vennero fuori alcuni aborti.

Questa volta la differenza è molto grande e noi siamo certi che il secondo libro di Nicoletta Bona ci confermerà che ci troviamo dinanzi a una scrittrice di valore che ha cuore e sentimento e che nel suo libro ha messo parte della sua vita e dei suoi sentimenti personali se è vero come è vero che nella scrittura cerca la sua nuova dimensione e la sua ragione di vita, come Sara con la pittura.

Gaspare Agnello, lì 27.6.2016

Gaspare Agnello