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Pubblichiamo questo interessante articolo che Francesco Castronovo ha gentilmente scritto per il blog.

«La luna si mangia i morti» di A. Russello: temi e motivi.

La luna si mangia i morti è un romanzo scritto da Antonio Russello nel 1953, pubblicato da Mondadori nella collana La medusa degli italiani, nel 1960, su indicazione di Elio Vittorini, poi ripubblicato dalla casa editrice Santi Quaranta nel 2003, nella collana Il rosone; completano questa nuova edizione un saggio di Salvatore Ferlita, intitolato Il mondo narrativo di Russello, al quale segue una premessa dello stesso autore (cioè A. Russello), dunque il testo del romanzo, al quale seguono, a chiusura dell’edizione, due brevi articoli: uno, di  Leonardo Sciascia, Un’accesa, rutilante favola della Sicilia; l’altro, di Matteo Collura, La miopia della critica.

Nel libro si narrano infanzia e adolescenza del protagonista nella casa dei nonni materni, detta Casagrande, nel paese di Favara, e nelle vie e campagne circostanti. Figlio di un brigante, di cui resta orfano fin dalla nascita, il piccolo protagonista si ritrova un nuovo padre, quando la madre si risposa con un esponente delle forze dell’ordine: un’infanzia segnata da due paternità, fra loro opposte, nelle figure di Verdone, padre naturale e brigante, e di Lo Bianco, carabiniere e uomo di giustizia.

Quasi tutta la storia narrata è il racconto dei ricordi del protagonista: il narratore è un adulto che ripercorre la sua infanzia e la sua adolescenza; questa ovvia considerazione ci permette di cogliere qualcosa di meno ovvio: il rapporto, fondamentale nel testo, fra inconsapevolezza e comprensione. L’intera narrazione è punteggiata da espressioni che mettono in relazione le vicende passate con le comprensione dell’età adulta, tenendo alta la tensione conoscitiva che il ricordo viene ad assumere nella narrazione; questo aspetto è rivelato dall’uso di particolari espressioni: «come capire che… (p. 27); chi capiva che… (p. 27); ma chi capiva che (p. 28); capivo che (p. 28);chi capiva che… (p. 29); ma cos’era poi… (p. 60); ma cos’era poi… (p. 61); ma chi poteva capire… (p. 66); ma chi sapeva (p. 76); forse capivo… (p. 86); ma chi capiva che… (p. 104); io non capivo allora… (p. 104) ». In questo breve elenco è chiara la frequenza di espressioni che introducono delle frasi interrogative; il cuore di queste espressioni è l’azione del “comprendere/capire”: espressioni-cerniera fra il passato, che è tempo degli eventi e dell’azione, e il presente adulto del narratore, che è comprensione dei fatti passati. Insomma, nel raccontare, il protagonista scopre il senso degli eventi vissuti. La memoria è qui strumento di rievocazione, ma anche banco di prova, tirocinio dell’interpretazione.

Il racconto ha due valori: uno, che è quello narrativo, dello svolgimento dei fatti; l’altro è quello conoscitivo, che riguarda la comprensione del vissuto del protagonista.

Attraverso il racconto, agli occhi del lettore si srotola il filo di alcuni eventi, che sembrano richiamarsi fra loro: uno di questi è proprio il tema del “buon matrimonio”. Intendo con questa espressione l’importanza che assumono le storie d’amore nel romanzo: ci sono tre storie di matrimonio; una è quella di Verdone e la madre del protagonista, che conosciamo solo perché riferita (dato che Verdone è morto al momento del racconto); dunque un’altra è quella di Lo Bianco che sposa la vedova di Verdone; un’altra ancora quella di Belgiovine con la vicina di casa.

Ciò che stupisce di queste tre storie è la loro conclusione: le nozze consumate con i briganti (Verdone e Belgiovine), finiscono nel sangue: muore Verdone, ucciso, e muore la moglie di Belgiovine, uccisa dal marito. L’unico matrimonio che pare andar bene è quello con Lo Bianco, uomo di giustizia. Allineate e confrontate, queste tre storie diventano metafora della pericolosità o dell’impossibilità di poter realizzare un progetto di vita con dei briganti, esponenti della malavita.

E qui si entra nel merito di un altro tema, fondamentale nel libro, e connesso proprio a quello della malavita: è vero che le atmosfere del romanzo hanno i colori e le caratteristiche quasi di una favola siciliana, ma non va tralasciato un dato importante, cioè che l’autore non dimentica di descrivere il retroscena sociale sul quale prolifera la disperata scelta della malavita: Russello indica nella povertà e nella mancanza di un lavoro l’humus fertile per la nascita dei fenomeni di violenza e barbarie: «E l’appuntato [Lo Bianco], col dito, ne accennava fuori il capo, Belgiovine, che schiamazzava sotto la giacca coi cugini sulle carte e […] benedetto figlio che non ha mestieri […] (p. 29); nonno Peppe a Belgiovine […] Perché non vuoi lavorare? (p. 29); Nonna Rosa allora si affacciò […] e a tutti gridò fannulloni, perché non si cercassero un lavoro, e Vento rispose che il lavoro, nemmeno a cercarlo con una candela di pecoraio si trovava (p. 83)».

Il tema della povertà è connesso a sua volta con la permanenza a Casagrande, dunque lo scrittore, per mezzo della voce narrante, coglie un altro dato empirico, che è il nesso povertà-opportunità legate al territorio: «Ma chi capiva che per la testardaggine di restarci, ci si consumavano nell’inedia, nella povertà? (p. 104)».

Reputo questi brevi passi importanti perché permettono di cogliere un aspetto di questo libro che mi è parso poco notato: l’attenzione alla dimensione sociale del problema della malavita. Penso che porre attenzione a questo dato possa aprire nuove e fruttuose osservazioni sul romanzo e sul ruolo dello scrittore all’interno di una riflessione non solo letteraria, ma anche sociale.

Altra figura fondamentale è quella di nonno Peppe, personaggio particolarmente caro al protagonista. Il nonno è un custode del tempo: racconta i fatti del passato (che riguardano Verdone, e che avvengono principalmente di notte, momento della giornata che pare delegato allo svolgimento dei racconti); dà la corda all’orologio della sveglia; sempre il nonno, infine, abbatte il tempo della morte nel dialogo finale col nipote.

Non casuale che, con la morte del nonno, spariranno da Casagrande anche il prezioso contenuto di una cassa (p.146), che conteneva importanti ricordi del passato, e la sveglia (p. 147) alla quale il nonno era solito dare la carica prima di andare a dormire.

Spentosi nonno Peppe, il passato viene sottratto al presente del protagonista; la sveglia ricomparirà solo alla fine, quando i due dialogheranno sulla tomba del nonno, che si materializza proprio con la sveglia in mano, precisando al nipote, mentre cerca la chiavetta per la carica, che la sveglia «Non suona più (p.154)».

 

In conclusione, mi preme affrontare un ultimo tema: la duplice paternità del protagonista. Figlio di un esponente leggendario della malavita, ora figlio di un uomo di giustizia, il protagonista si trova ad un crocevia che non ammette continuità: le due strade paterne non possono sovrapporsi, né sfumare l’una nell’altra; possono solo escludersi a vicenda. Fra questi due poli si snoda l’infanzia del narratore. Trovo molto significativi due passi, perché ci permettono di progredire sulla strada delle nostre riflessioni: in ben due momenti, il protagonista viene a conoscere le malefatte del suo vero padre, narrate con tanto di elogio da parte del testimone di turno; quel che stupisce è la reazione del ragazzo, che si immedesima non nella ferocia del padre, ma nella sofferenza delle vittime: ad esempio, dopo aver sentito come suo padre avesse «messo sul costone un altro a bruciare al sole (p.93)», il protagonista dice: «Mi venne un tremito nelle gambe, me ne andai così, solo, sotto l’albero e cominciai a star male che mio padre lo avesse fatto […] Ma io pensavo perbacco che non ero un ragazzino, che conoscevo bene le cose, che quella storia era passata, e ora mi faceva da padre un onest’uomo, un uomo della legge, un pezzo grosso della città, e ne andavo fiero, mentre quell’altro era stato un assassino (p.93)».

A una seconda esperienza, frutto di un altro racconto delle gesta del padre, il protagonista, dopo essersi addormentato, nel sogno rivive la vicenda, ma nel ruolo dell’uomo rapito dal padre (p.117).

Come si nota da questi due brevi esempi, il ragazzo vive la distanza che intercorre fra i due padri e sceglie da che parte stare.

Tuttavia, va aggiunto che il dissidio non è così pacificamente risolto: il protagonista si allontana dalle scelte del padre e non ne segue la strada, ma resterà comunque legato al ricordo del genitore che non ha mai conosciuto; anche se il narratore non condivide le scelte del vero padre, è mosso dal desiderio di sapere quanto più possibile sulla figura di Verdone.

In conclusione, questa accesa, rutilante favola della Sicilia, per dirla con le efficaci parole di Sciascia, è un racconto vivido nei colori e nelle descrizioni, ma è anche la storia di un’infanzia e di un’adolescenza scisse fra due opposte paternità.

Francesco Castronovo, 31 Agosto 2020.