Il centenario della nascita di Sciascia è stato costellato da una serie di pubblicazioni che hanno apportato nuovi contributi alla conoscenza dello scrittore di Racalmuto e che, qualche volta, sono apparse come frutto del “ruminare”
Anche un laureato in scienze agrarie, una specie di contadino addottorato, ha voluto scrivere di Sciascia pubblicando il libro La ‘ragione’ del cibo – Leonardo Sciascia a tavola – per i tipi della casa editrice Sciascia di Caltanissetta.
Quando Lillo Alaimo Di Loro mi ha detto che ha scritto un libro su quello che mangiava Sciascia e che me lo voleva regalare mi sovvenni di un verso, forse del Parini,: ‘Sputa latin chi men conosce’.
La curiosità e l’invito ad intervenire alla presentazione alla Fondazione Sciascia di Racalmuto, mi hanno portato a iniziare di malavoglia la lettura.
Sono stato preso immediatamente dal racconto e la curiosità mi ha spinto ad andare avanti per ritrovare uno Sciascia vero, umano, un figlio di ‘surfararu’ un ragazzo cresciuto dalle zie che certamente mangiavano, come tutti i nostri contadini, i prodotti genuini della nostra terra.
Tra i tantissimi libri su Sciascia, questo mi è sembrato il più bello, il più originale, non frutto di ruminazione sulla giustizia e sulla mafia, bello anche perché si avvale della testimonianza del nipote di Sciascia, Vito Catalano che, come il nonno, ama ancora ritirarsi nella casa della noce e che, meglio di tutti, conosce le abitudini alimentari del nonno scrittore.
Alaimo Di Loro, per introdurci nel tema ci riporta al ‘Contesto’: “Rogas uscì dal Cacciatore alle tre del pomeriggio: aveva fatto un’ottima colazione, mezzo coniglio selvatico all’agrodolce e una bottiglia di rosso, fortissimo ma che arrivava a un’estenuazione da gelsomino ; e aveva controllato, al di là di ogni dubbio, l’alibi del meccanico. Si sentiva soddisfatto, sicuro: e perché apparteneva alla categoria, sempre più numerosa, di coloro che la selvaggina, il pollo ruspante, il pane di casa e il vino di botte celebrano e godono come reliquie dell’età dell’oro…”
Dopo di che l’autore ci parla di tutto quello che mangiava e cucinava Sciascia.
E qui vien fuori la persona che si forma, come lui stesso ha scritto, nei primi dieci anni della propria vita.
Pur avendo tanto viaggiato per le grandi capitali europee ed avendo abitato per alcuni anni a Roma, Sciascia è rimasto fedele alla cucina degli zolfatari e dei contadini di Sicilia.
Ed ecco lu maccu a base di fave secche, finocchietti di campagna, sale, pepe e olio rigidamente di olive, gli asparagi, raccolti dallo stesso scrittore, attorno alla sua campagna, i legumi, la pasta alla ‘brigante’ o alla ‘carrettiera’, le verdure come i cavoli, ‘li zarchiteddri’ di campagna, le frattaglie tra cui la stigliola o la lingua di bue,, i funghi, il pesce fresco che veniva a comprare ad Agrigento da Vaianella.
E poi la mpignulata con la quale ha fatto trascorrere una notte insonne a Mario Spagnol, la fuazza, il pane di casa.
Questi sono cibi frutto dei prodotti della sua terra, che sono assolutamente biologici e che, saputi cucinare, soddisfano il palato e hanno le calorie e le sostanze che servono a condurre una vita sana.
Certamente Sciascia non aveva bisogno di aperitivi e di antipasti perché aveva il ricordo di una fame atavica.
A Pannella che lo invitava al digiuno per una delle tante proteste radicali, Sciascia rispose che avrebbe attuato qualsiasi forma di protesta meno quella del digiuno che gli ricordava una fame antica del popolo siciliano
Lillo Alaimo Di Loro cita quanto detto dal contadino vicino di campagna di Sciascia, Nicuzzu Patito: “Ora si usano gli antipasti che qualcuno dice che aprano l’appetito. Ma mi chiedo: cosa c’è da aprire?”.
“In uno tra i più grandi scrittori del novecento, scrive Lillo Alaimo Di Loro, forse convivevano almeno due tendenze gastronomiche: la frugalità del cibo come riflesso ancestrale di un rapporto intimo con la terra e la raffinatezza di una cultura europea degna delle interpretazioni dei migliori ‘monsu’”.
Io credo che i grandi cuochi abbiano influito pochissimo sulla cucina di Sciascia, molto meno di quanto abbia contribuito la letteratura europea sulla sua formazione culturale.
Evidentemente per un uomo che amava la buona cucina, che era anche forma di convivialità, la dieta non aveva diritto di cittadinanza: “Lo confesso. Vedendo anzi, tra familiari e conoscenti, quel che si fa per dimagrire, e gli scompensi che ne vengono, sono del parere che gli inventori di diete, sarebbero da considerare alla stregua degli spacciatori di droga…”
Attraverso questo prezioso volume siamo entrati nell’intimità del caminetto della Noce e ci siamo resi conto che Sciascia certamente è rimasto legato alla sua terra, ai suoi usi e costumi nella consapevolezza che cibo, cultura, terra e storia si fondono in una unica entità.
La immagine della copertina è veramente emblematica e fa da ottima cornice al bel lavoro di Lillo Alaimo Di Loro.
Agrigento, lì 28.7.2021
Gaspare Agnello