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Pubblico l’intervento che la Professoressa Vincenza Petyx,  figlia dello scrittore Angelo Petyx e docente presso l’Università di Torino, ha tenuto a Montedoro (CL) il 30 Marzo 2007 (foto evento) in occasione della intitolazione del museo della miniera a suo padre  del decennale dalla sua morte:

Angelo Petyx: l’uomo lo scrittore (Intitolazione museo)

Confesso che questo è uno degli interventi pubblici più difficili della mia vita, anche perché si tratta di ricordare mio padre e in tali occasioni la retorica è in agguato. Ma – come si evince dalla sua narrativa – mio padre amava uno stile sobrio, asciutto, e dunque non gli renderei un buon omaggio se indulgessi nella retorica.

Pertanto, molto semplicemente, voglio ringraziare anche a nome di mia madre, che desiderava tanto tornare a Montedoro, ma la fatica del viaggio e le troppe emozioni l’hanno sconsigliato, tutti coloro che in questi anni si sono adoperati perché il lavoro di mio padre venisse ricordato da chi già lo conosceva, scoperto da chi ancora non lo conosceva, soprattutto i giovani.

Vincenza Petyx

Federico Messana dunque, che all’indomani della morte di mio padre pensò fosse il caso di ripubblicare La Miniera occupata ormai introvabile, e di raccogliere in volume una serie di racconti alcuni dei quali inediti, altri pubblicati negli anni Cinquanta, e anch’essi ormai difficilmente reperibili; che ha ideato il progetto del Museo della solfara intitolato a Angelo Petyx, narratore della vita di miniera.

Il prof. Milazzo, che con sensibilità letteraria, competenza, e grande affetto ricordando l’amicizia che legava suo padre al mio, ha seguito passo passo il lavoro editoriale, e operato la scelta dei racconti che maggiormente ne testimoniano «l’officina letteraria».

Il prof. Ferlita, che oltre all’articolo comparso su Repubblica, «Angelo Petyx. Il partigiano racconta i minatori di Montedoro», ha in preparazione un’opera in cui ancora mio padre sarà uno dei protagonisti. Il prof. Gaspare Agnello, che sta facendo un paziente lavoro di divulgazione per farne giungere l’opera al grande pubblico. E ringraziare voi tutti che, partecipando a questo incontro, testimoniate con la vostra presenza di non avere dimenticato chi Montedoro non ha mai dimenticato.

Mi è stato chiesto un ricordo di mio padre, privilegiando il profilo umano. Perdonerete dunque se ricorrerò anche a reminiscenze personali; e gli amici Ferlita e Milazzo scuseranno se sconfinerò talvolta nel campo che è di loro specifica competenza, e su cui ci intratterranno oggi. Ma è difficile separare l’uomo dallo scrittore.

Parlando di mio padre in altra occasione dicevo che attraverso il suo racconto di una Sicilia dolente e affaticata, delle sue lotte, battaglie, sconfitte, è anche un pezzo del patrimonio culturale siciliano, della sua memoria storica, che viene conservato e tramandato.

Memoria storica non intesa però come ripiegamento particolaristico, localistico, nella frammentazione di piccole patrie che ci porterebbe indietro di un secolo e mezzo, ma memoria della propria storia che, nel momento in cui acquista consapevolezza della propria identità, si trascende, entra a far parte della storia comune, della storia di tutti.

Alla luce di questa memoria, mai come oggigiorno certi ricordi di mio padre, che erano anche commento ai tempi che stava vivendo, si sono rivelati lungimiranti e drammaticamente attuali. Ricordava, infatti, negli anni in cui al nord iniziavano a sventolare le bandiere padane, e assisteva stupefatto a certi pellegrinaggi al dio Po col rito dell’ampolla ed esilaranti personaggi vestiti da celti, ricordava – dicevo – la folgorazione che ebbe, a vent’anni o poco più, leggendo Voltaire, un filosofo francese del Settecento, di un momento storico attraversato da una profondissima crisi politica e sociale, che aveva alle porte la Rivoluzione francese, e stava per spazzare via definitivamente gli unti del signore – ma questo succedeva in Francia.

Leggeva Voltaire che attaccava il vecchio sistema politico, criticava usi e costumi della tradizione che dei Francesi faceva sudditi sottomessi al potere dei forti, e non già cittadini con diritti inviolabili. E leggendo Voltaire fu colpito dalla portata universalistica dell’affermazione ubi bene ibi patria, dove regna il bene lì è la mia patria. Patria definita, dunque, non tanto da confini geografici, ma dal bene che, in chiave politica, significa leggi giuste, leggi cioè che al di là delle differenze di censo di religione di sesso di razza sanciscono i diritti inalienabili di libertà ed eguaglianza.

Diritti che fino a quando non sono tradotti in leggi allora, fino a quel momento, l’uomo non è riconosciuto nella sua dignità di uomo, e le leggi non sono giuste.

Questi valori sono stati alla base della formazione culturale, politica ed etica di mio padre, dove “cultura” e “politica” non possono essere disgiunte, e l’etica, ovvero morale privata e pubblica, ne costituisce l’elemento di saldatura. Il suo antifascismo, irriducibile, senza compromessi, sino a costargli la reclusione a Gaeta, la militanza nel C.L.N., la partecipazione alla Resistenza nella formazione Giustizia e Libertà, si radicavano in questi valori. E d’altro canto l’antifascismo sostanziava e rafforzava a sua volta i principi etici, culturali, e politici.

Libertà e giustizia, appunto. Giustizia che dalla libertà non può essere separata, e libertà che resta un guscio vuoto se non accompagnata dalla giustizia. Nella loro reciproca appartenenza libertà e giustizia aprivano così a una visione della storia, a un preciso progetto di convivenza umana, a cui mio padre è stato sempre coerente.

Non sono una storica della letteratura né una critica letteraria. Ma penso di poter dire che il realismo sia stato scelta sostanziale e non soltanto formale della sua narrativa per tradurre in parola scritta quel progetto e quella visione storica.

Qualche mese addietro è comparso su un quotidiano un articolo dedicato al «nuovo neorealismo», in cui si diceva che tale neologismo, a lungo soltanto sussurrato come fosse un tabù, perché troppo ideologicamente connotato, troppo richiamava il realismo socialista, è stato alla fine pronunciato ad alta voce: il realismo ritorna nella nuova narrativa italiana, ripreso da quella fertilissima stagione culturale che fu il dopoguerra, quando il neorealismo in ambito letterario, ma anche cinematografico (si pensi a De Sica, Rossellini, Visconti ecc.) o nell’ambito di laboratori culturali quali Il Politecnico di Vittorini, divenne la chiave appunto per rappresentare ed esplorare la realtà italiana, analizzare i rapporti di forza tra soggetti sociali collettivi.

Dopo i silenzi i fiancheggiamenti le paure i compromessi di una parte, e sottolineo di una parte, degli intellettuali nel periodo fascista, con la Liberazione gli intellettuali riconquistavano il diritto di esercitare in piena libertà il loro compito critico, il loro essere coscienza inquieta della società.

Ebbene, per mio padre la cultura, nella fattispecie lo scrivere, rivestì anche la funzione di rappresentazione critica di una realtà che, nei fatti, negava quella libertà ed eguaglianza, quella giustizia, che costituivano l’ossatura morale del suo impegno. La domanda “L’uomo è forse libero se non è liberato dalla fame?” attraversa come un filo rosso la sua narrativa.

Raccontando la Sicilia mio padre ha dunque contribuito a costruire il mosaico della realtà italiana che, dalle fabbriche del nord alle miniere del sud, aveva negli umili, negli oppressi, negli sfruttati i propri protagonisti. Ma attraverso la Sicilia, i suoi personaggi, le sue vicende, e storie, ha raccontato altro ancora. La sua narrativa, cioè, non si esaurisce nel progetto neorealistico. Quella tessitura di vicende storie personaggi trasfigura metaforicamente, e declina in riflessione filosofica.

La rammemorazione, il continuo ripercorrere e ridefinire le ragioni, le esigenze della sua formazione, la presa di coscienza delle origini, della “sicilianità” (sicilianità che rivendicava in una lettera a Pignatone), non voleva essere solo testimonianza della sua personale esperienza esistenziale.

La rammemorazione ha avuto certamente un tempo e luoghi precisi, che ne rispecchiano la vita: il tempo della guerra e del dopoguerra, come sospeso nell’attesa del compimento di qualche cosa che non si è compiuto, o si è compiuto solo in parte; i luoghi muovono da Montedoro, tra il Calvario la piazza lo stradale delle lunghe passeggiate con gli amici, attraversano il paesino dell’Emilia di Anna è felice, approdano alla campagna dei dintorni di Tarantasca, che aveva iniziato a conoscere nella stagione della Resistenza, con le sue gelate invernali, che pativa terribilmente, e il rigoglio estivo, che amava molto, per ritornare a Montedoro.

Ma questa rammemorazione non significava una sterile e nostalgica chiusura nel passato, una sua idealizzazione, perché era ben consapevole della pesantezza di quel passato. Significava bensì la necessità di conservare e rinnovare la memoria di valori che mantenevano e mantengono intatta la loro validità, la necessità della formazione di una coscienza collettiva che accompagnasse l’individuale presa di coscienza. Qui avviene il passaggio al piano metaforico e filosofico. La metafora usa un determinato personaggio, collocato in un tempo e luogo particolare, per raccontare attraverso quel personaggio qualche cosa che è dell’uomo in quanto tale, e in cui gli uomini possono riconoscersi: il bisogno della conoscenza, il rovello del dubbio, ecc.

La metafora, cioè, qualunque tempo, storia, e luogo assuma per i suoi racconti, rivela sempre un significato universale. Ora io penso che in Liillà, o nel protagonista di Spegnete il sole, altri Liillà possano riconoscersi e riconoscere la loro vita umiliata. E ancora Lillà, emblematicamente, testimonia il passaggio alla riflessione metafisica sulla condizione umana, sul dolore, la morte, la solitudine, la sofferenza, la solitudine della morte.

Ha scritto Consolo «isola è fine di ogni viaggio […] isola è anelito e approdo, remissione d’ogni incertezza e ansia. Ma isola è anche sosta breve, attesa, pausa in cui rinasce la fantasia dell’ignoto, il desiderio del viaggio, il bisogno di varcare il limite, sondare nuovi spazi». La Sicilia per mio padre è stata tutto questo: anelito e approdo, fine dell’ansia, dell’incertezza, sosta breve metaforicamente intesa come continuo bisogno di conoscenza: nitido il ricordo di mio padre seduto nello studio a leggere e scrivere, con una scansione inderogabile della giornata. In sintesi potrei dire che la Sicilia è stata luogo del sentimento e della ragione.

Luogo del sentimento, di affetti mai dimenticati, e vorrei ricordare in proposito mio nonno con cui ebbe un legame profondissimo; la mitezza e l’intelligenza di mio nonno ritornano in molti personaggi, suo il dono della pittura prestato al protagonista de Il sogno di un pazzo. E luogo della ragione, punto di partenza di quel lungo viaggio – per citare il titolo di un romanzo breve – che fu la sua formazione di uomo e scrittore. Inizio appunto, ma anche fine di ogni viaggio, la fine del suo viaggio.

Mio padre riposa nel paese che lo vide partigiano e dove conobbe mia madre, dove era di casa perché lì abitavano i miei nonni materni, dove era amato e rispettato, ricordando i vecchi compagni di lotta i giorni in cui lui, siciliano, combatteva con loro. Vorrei ricordare a questo proposito Vittoria Barra, perché se fosse mio padre oggi qui a parlare di quel periodo della sua vita la ricorderebbe come sempre la ricordava, con affetto e stima. Zia Vittoria la chiamava infatti, visto che in più di un’occasione gli aveva salvato la pelle dando l’allarme quando arrivavano le brigate nere del famigerato Salvi, conosciuto nel cuneese come “il torturatore”.

Vittoria Barra non aveva alcun rapporto di parentela con i miei nonni, ma la Resistenza aveva stabilito legami fortissimi tra di loro. Ero una bambinetta di cinque o sei anni, e ricordo l’allegria di quando zia Vittoria arrivava a casa dei nonni. Parlavano di tante cose, ma poi finivano per seguire il filo dei ricordi.

Notavo tra loro una sorta di complicità mentre ricordavano cose del passato che io non capivo, come l’eccidio di San Benigno, lo scoraggiamento e la paura alla notizia che Duccio Galimberti era stato catturato e ucciso dai fascisti sul ciglio dello stradale non lontano da Tarantasca: scoraggiamento, perché veniva a mancare uno dei punti di riferimento della Resistenza cuneese; paura, perché mio nonno, membro del Comitato di Liberazione Nazionale, era sulla lista nera (e non capivo cosa significasse lista nera), e si ostinava, nonostante tutto, a dare rifugio a gente pericolosa, a dei “banditi”, come mio padre. Poi mi spiegò la nonna che, a quei tempi, essere definito “bandito” era onorevole, perché così i Tedeschi chiamavano i partigiani. Vittoria Barra ora riposa poco distante dai miei nonni e da mio padre.

Ma la lontananza dalla Sicilia è stata sempre soltanto spaziale: per questo sono contenta del museo a lui intitolato, del busto che lo ricorda, contenta che sia anche, nuovamente, a Montedoro, perché il viaggio di mio padre finisce appunto qui, a Montedoro, parte insostituibile di quel mondo di affetti mai dimenticato di cui parlavo poc’anzi, presente nei suoi racconti in una minuziosa descrizione di luci colori ombre suoni silenzi, come per non dimenticare nulla, e perché nulla fosse dimenticato. Ma, per continuare nella metafora, io spero che da Montedoro riparta per essere meglio conosciuto e riconosciuto nel suo valore.

Quando nel 1954 Elio Vittorini lo invitò a trasferirsi a Milano per il suo avvenire di scrittore, e per il molto lavoro che vi era da fare in ambito culturale, e mio padre rifiutò, Vittorini gli disse di pensarci, perché non era forse la scelta giusta. Quel rifiuto, e l’isolamento che ne conseguì da circuiti letterari importanti, che potevano decretare il successo di uno scrittore, pesò certamente sulla sua fortuna letteraria.

Su quel rifiuto influì anche il carattere schivo, riservato, timido – come lo definì Calvino – ma intransigente sui principi, non disposto a compromessi, a tessere conoscenze e amicizie per tornaconto personale. E pesò certamente sul rifiuto che oppose alle molte proposte di carriera politica. Dopo la liberazione il C.L.N. gli affidò l’incarico di ricostruire la vita democratica nel circondario in cui aveva militato come partigiano. Fatto ciò che gli era stato richiesto di fare, e che pensava fosse giusto fare, rifiutò ogni altro incarico e ritornò ai suoi studi. E d’altre parte lo stesso rifiuto oppose a chi qui, in Sicilia, per la limpidezza della sua storia lo voleva al Parlamento, o alla Regione, o addirittura presidente di un partito che non era il suo.

Certo è che soprattutto negli ultimi anni profonda era l’amarezza dinanzi all’aria del tempo che cominciava a spirare, in cui la dichiarata fine delle ideologie altro non era e non è se non la caduta di ogni riferimento ideale forte, la giustificazione quando non addirittura la legittimazione di un sistema che corrodeva e corrode quello spirito pubblico la cui formazione si era sperato, dopo la guerra, accompagnasse la ricostruzione materiale dell’Italia. L’amarezza dinanzi a sistemi clientelari che non premiavano, e non premiano, il valore ma le amicizie, e il riferimento è anche al campo letterario.

Ma già negli anni Cinquanta, in una lettera a Pignatone, trapelava il timore che stessero perdendosi le tensioni ideali che per un breve periodo avevano animato il paese, e fossero destinati alla sconfitta gli uomini che quegli ideali e quei valori avevano coltivato. Scriveva a Pignatone: «Bisogna ricordare che anche in politica la morale è fondamentale. Abbiamo combattuto per una causa giusta e poi…».

Per concludere il ricordo di mio padre non posso non citare mia madre, perché a detta di chi li ha conosciuti l’uno seguiva come un’ombra l’altro. Aveva quindici anni quando conobbe mio padre. Dopo lo sbandamento della Quarta armata dalla Francia al cuneese, e le peregrinazioni di cascina in cascina per sfuggire ai rastrellamenti dei nazi-fascisti che battevano la campagna alla ricerca di partigiani e di chi non aveva obbedito all’editto Graziani, e per i quali Graziani generosamente prometteva la fucilazione, aveva infine trovato rifugio presso la casa di mio nonno.

Narra la leggenda di famiglia, sentita raccontare fin da bambina (ma probabilmente leggenda non è, visto che così sempre l’hanno raccontata persone diverse), che mia madre stesse studiando letteratura italiana, più precisamente – tiene a sottolineare – una poesia di Leopardi, quando mio padre le domandò: «Che cosa sta leggendo di bello, signorina?». Per citare Dante: galeotto fu il libro e chi lo scrisse. Da quel momento la sua vita fece tutt’uno con quella di mio padre, e così continua, immutata, a 13 anni dalla morte.

A Vittorini, che notava questo loro legame così stretto, con un sorriso un po’ ironico, com’era nel suo stile, mio padre rispose:« Siamo come certi personaggi di Pirandello che vanno sempre insieme». Mi è sembrata sempre, questa risposta, una buona immagine della loro vita in comune.

Vincenza Petyx