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Il due novembre del 2012 ricorrono i cento anni della nascita dello scrittore di Montedoro Angelo Petyx (tutte le recensioni sul blog) e noi cominciamo a farlo conoscere ai nostri lettori e al grande pubblico recensendo le sue opere che ancora non trovano un editore che li possa ripubblicare.

Avevamo recensito “La miniera occupata“. Ora parliamo de “Il sogno di un pazzo” con la riserva di scrivere di altre opere che sono in nostro posesso e che si possono consultare presso la biblioteca comunale di Montedoro.

Speriamo che il comune di Montedoro e gli intelettuali siciliani possano celebrare degnamente questo narratore così significatgivo della nostra letteratura.

La lettura del libro “La Miniera occupata” e dei Racconti  ci aveva fatto scoprire Angelo Petyx, scrittore  di Montedoro, di cui ci siamo profondamente innamorati per la bellezza e la novità del suo stile, per il suo realismo che lo porta a dipingere il mondo degli ultimi, degli sfruttati, degli affamati della sua terra di Sicilia che diventa metafora degli ultimi del mondo e perché la sua opera non perde mai la sua freschezza e la sua potente attualità.

Da diverso tempo tenevamo sul nostro comodino il libro di Petyx “Il sogno di un pazzo” pubblicato per i tipi della casa editrice Todariana di Milano, che ci aveva regalato la figlia Professoressa Enza.  Non lo leggevamo perché presi da tanti impegni, non ultimo quello televisivo. Ma il pazzo di Kathe Kolluwitz stampato sulla copertina del libro, ci guardava con il suo occhio sinistro triste e malinconico e ci invitava alla sua conoscenza. E poi c’era un senso di gratitudine nei confronti della Professoressa Petyx che, parlando a Montedoro del padre partigiano e scrittore, ci ha commossi e ci ha conquistati con la sua grande simpatia. Era giusto leggere il libro che, a dire della Professoressa, il padre scrisse con tanto impegno perché aveva speranze e promesse importanti da qualche casa editrice che poi non si sono realizzate e che hanno creato profonda delusione nell’autore.

Ci siamo immersi nella lettura e dal primo rigo abbiamo appreso che il protagonista Antonio Failla era di Grotte che è il nostro paese di origine e che era emigrato a Eliodoro dove ha sposato Teresa la donna della sua vita.

Dobbiamo dire che si è trattato di una vera e propria immersione perché, iniziata la lettura, non abbiamo voluto più lasciare il libro che ci ha presi totalmente. L’ abbiamo letto in due riprese e alla fine siamo rimasti col cuore nero e con la mente sconvolta per la drammaticità della storia che non ha nulla di inventato ma che è ‘reale’ ‘vissuta’ da tanti uomini del sud e da milioni di uomini sulla terra che hanno sofferto e soffrono ancora la fame se è vero che tanti bambini oggi muoiono di e per fame.

Noi, prima di iniziare a  entrare nel libro per commentarlo, rimandiamo i nostri lettori ad una nostra precedente recensione de “La miniera occupata” attraverso la quale potranno comprendere chi è stato Petyx e quali sono i nostri giudizi su questo autore così importante nella storia della letteratura italiana che merita di essere riscoperto e valorizzato nella sua giusta dimensione.

La casa editrice Sciascia,  per nostra fortuna, ha ripubblicato “La miniera occupata” e anche alcuni racconti che ci hanno fatto scoprire lo scrittore, mentre tutti gli altri libri tra i quali “Gli sbandati”(1971), “Le notti insonni di Liillà”(1984), “Il lungo viaggio” (1986), “Anna è felice” (1991), “L’amore respinto” (1994), “Il sogno di un pazzo”(1979), aspettano un nuovo editore per essere ripubblicati e portati all’attenzione del grande pubblico.

Ma tornando al ‘pazzo di Grotte’ vogliamo sottolineare che la storia raccontata è molto semplice: Antonio, un uomo che stava per diventare prete, quindi con tanti studi alle spalle, si sposa a Eliodoro dove è impiegato al dazio. Ma viene licenziato perché di cuore tenero e quindi incapace di fare cassa ma soprattutto perché si fa scoprire antifascista dal suo collega De Marco che lo accusa al segretario del fascio Pelagatti.

Così Antonio, la moglie Teresa e la figlia Mariuzza piombano nella misera più nera che si possa immaginare e la miseria anzi la fame  diventa la protagonista del libro.

La storia è un pretesto che Petyx si inventa per descrivere la società siciliana in cui è nato e cresciuto, per farci conoscere un mondo terribile di miserabili che sono costretti a lottare giorno per giorno contro un destino infame che li condanna all’emarginazione totale.

Il partigiano di Tarantasca, l’insegnante di Cuneo, il comunista che crede nella redenzione del popolo ed in una società più giusta, non sembra sia mai partito da Montedoro e dalla Sicilia e sembra essere rimasto immerso in quella sua realtà che ha vissuto da bambino e da giovane. Ognuno di noi, dice Sciascia, rimane quello che è stato nei primi dieci anni della sua vita e le sensazioni e le impressioni tremende che  Petyx ha ricevuto dal duro dramma della sua gente, non lo hanno mai abbandonato e quindi dobbiamo prendere atto che lo scrittore è rimasto siciliano e che deve essere ascritto alla  schiera dei  narratori siciliani del novecento che fecero grande la letteratura italiana. Quella di Petyx è la stessa storia di Antonio Russello che, emigrato e trapiantato in Veneto, con moglie friulana, non sembra essere mai partito dalla sua Favara e tutte le sue opere sono collocate lì in quell’angolo di terra dove avvenne la sua prima formazione e dove erano i suoi affetti familiari.

Scrive Russello nella sua premessa al romanzo “La luna si mangia i morti”: Questo libro è stato scritto nel 1953  in provincia di Padova e il paese a cui si riferisce è Favara di Agrigento….Gli altri libri che l’hanno preceduto e seguito, scritti tra il 1946 e il 1958, ritornano ad ambientarsi quasi sempre nello stesso paese. Dico questo perché non credo che i manoscritti vengano trovati in una bottiglia, non credo cioè che una vicenda possa essere indifferentemente posta in un paese come in un altro. C’è una fedeltà al di fuori della quale se l’autore si mette, rischia di essere orfano, rischia che la sua terra gli diventi matrigna.

….Ora io penso che si può essere fedeli a sé stessi, sol quando l’ispirazione ci riporti sempre alla stessa terra, ci schiacci sempre sotto quell’urgere di terra e cielo e sangue i quali, come destino, perciostesso che continuamente premono, vogliono essere placati come spiriti cattivi, con l’evocarli”.

Ci piacerebbe sapere che Petyx abbia letto questa premessa ma ne siamo assolutamente certi poiché il libro di Russello è stato pubblicato da Vittorini nel 1957 nella stessa collana in cui lo stesso Vittorini, nello stesso anno, ha pubblicato “La miniera occupata”.

Quindi con il cuore e la mente rivolti alla sua Montedoro, Petyx ricostruisce un periodo della nostra storia e lo fa con grande maestria, raccontando una vicenda, ricostruendo perfettamente l’ambiente in cui  si svolge, e il contesto sociale e politico del tempo.

Protagonista del libro non è Antonio ma, come detto, la fame, quella nera e vera che ha subito la gente del sud che, dopo il 1860, è stata abbandonata al suo amaro destino da uno Stato predone che ha rubato i suoi tesori per investirli al nord o addirittura in avventure africane di cui la gente di Sicilia si lamentava.

Antonio Failla viene allontanato dal seminario due anni prima di prender messa per certe sue aberrazioni sulla grazia e sul peccato originale. Va a Eliodoro dove trova un posto di lavoro al dazio e dove si sposa.

Ma Antonio, che è un uomo colto, e un uomo libero, mal tollera gli abusi del fascismo e la sua politica imperialistica che è ridicola se si pensa al fatto che l’Italia avrebbe dovuto colonizzare il suo mezzogiorno. La sua avversione al fascismo non la può nascondere e il suo collega De Marco annota e riferisce al segretario Pelagatti per colpirlo poi mortalmente.

 

“Vedi, il guaio è che il fascismo ha fatto proseliti tra i cretini come Pelagatti, De Marco e soci…”

Ed un giorno in cui Antonio, la moglie Teresa e la figlia Mariuzza  debbono riscaldare il loro stomaco vuoto con una scodella di acqua riscaldata, Mariuzza dice a  papà: “Alla faccia di De Marco”…

“…Di De Marco solo?” ribattè il padre. “ E a Pelagatti?  Non ce lo metti Pelagatti?…Alla faccia di De Marco e Pelagatti messi insieme: E di tutti quelli che vestono fez e camicia nera”.

“Perché, disse la mamma, solo la camicia hanno nera?  E il papà: ‘Il fez, l’anima, i pensieri. Tutto hanno nero i fascisti”.

De Marco, sciarpa littorio, è convinto dell’onnipotenza di Mussolini e, parlando per bocca di Pelagatti dice “vedrai” “non appena il Duce lo comanderà, ci prenderemo l’Abissinia, la Tunisia e il resto ancora, perché nessuno oserà più fermare l’Italia fascista in marcia”. E questo per vendicare i morti di Adua e di Amba Alagi, anche se il duce, diceva Antonio, “farebbe meglio a pensare alla Sicilia, anziché all’Abissinia, perché siamo abissini i siciliani, i calabresi, e il resto degli italiani”.

Questi pensieri porteranno il nostro Antonio al disastro perché “il fascismo non ha saputo produrre che ruffiani, spie e fame”. E la spia De Marco lo farà licenziare.

Così Antonio conosce la fame.

La fame nera quella vissuta dal mezzogiorno d’Italia dove il pane quotidiano del “Pater Noster”, non è più quotidiano e manca dalle tavole di milioni di persone che muoiono di stenti  e sono costretti a riscaldarsi lo stomaco vuoto con un poco di acqua bollita. La signora Teresa  trova tutte le porte chiuse, nessuno gli fa credito, nessuno gli presta un pane o un poco di pasta e amaramente dice: “nessuno più accredita niente, fa la carità: chi l’ha mangia e chi non l’ha guarda il vento da dove mena”.

Una sera il povero Antonio dice ai suoi: Io berrei una scodella d’acqua calda. Stasera mi sento un pezzo di ghiaccio e una scodella d’acqua calda mi farebbe bene”. E alla figlia che ravvivava il fuoco del braciere dice: “E tu, non la berresti tu?” “ Ho anch’io freddo e una scodella d’acqua calda la berrei volentieri. No, non voglio niente io che la sentirei amara come il tossico, rispose la mamma”.

La famiglia di Antonio il cibo lo sogna, lo immagina e rivolto ai suoi dice: “ Per te, per la mamma e per me ci vorrebbe un litro di latte la mattina, pastasciutta con un secondo di carne a mezzogiorno e un uovo ciascuno la sera. A capo di un mese saremmo rimessi tutti a nuovo”.

“Giusto, solo che il latte, la carne e le uova se le possono permettere don Luigino, don Alfredo, e don Federico. Noi queste cose possiamo mangiarle solo con la fantasia”.

….E la figlia rivolta al padre: “avessi sentito mentre tornavo da Maria La Cucca che odore di braciole dal molinaro, salsiccia fritta con le olive nere e patate”….” Un po’ di patate con le olive nere le mangerei anch’io. Ma che farci?  Il mondo è così: chi piange e chi ride; chi mangia e chi guarda mangiare”.

Questi sono dialoghi che difficilmente i giovani di oggi potranno capire.

Un piatto di minestra può dare la felicità a una famiglia.  Può sembrare strano. Eppure Mariuzza trova la felicità in un piatto di minestra: “Calaci un po’ più di pasta, mamma. Ho una fame oggi…” e mi sentii d’improvviso felice. Mi dicevo: “ Com’è possibile che una minestra rimediata con un pomodoro, una costa di sedano, due patate e un pugno di spaghetti sminuzzati dia felicità? Prima credevo che per essere felici ci volessero vestiti sfarzosi, gioielli e palazzi incantati, mentre stamattina ho scoperto che basta un semplice piatto di minestra”.

Antonio dopo il licenziamento dal dazio  si arrangia anche a riparare sedie e ombrelli ma ha nel cassetto “un sogno” quello della pittura che ha sempre coltivato con risultati veramente apprezzabili e spera che attraverso l’arte la sua vita possa cambiare. Sogna di andare a Palermo dove la sua pittura potrà essere apprezzata e quindi poter vendere i quadri a quelli che ne capiscono ma il suo è “il sogno di un pazzo” perché, per un povero, è difficile uscire dalla miseria. Ogni tanto si illude. A Serradifalco il farmacista apprezza la sua opera e compra due quadri per 40 lire, ne vende qualche altro. C’è chi si fa dipingere il carretto per qualche lira, ma in un terra dove la fame regna assoluta come può affermarsi uno che vende arte? Il sogno artistico di Antonio Failla è stato il sogno del padre di Angelo Petyx che coltivava la passione della pittura, senza che di questa passione sia rimasto nulla.

Antonio dopo il licenziamento si illude di potersi dedicare totalmente all’arte e avere il successo che si merita. E alla figlia che, con la madre, tenta la via della riassunzione, dice: “ Tu e tua madre sperate tanto in don Luigino, nel dazio, mentre la mia strada è un’altra, quella dell’arte. E l’arte non si crea dedicandole ritagli di tempo, come non soffre distrazioni, perché richiede la dedizione assoluta, totale, dell’artista”.

Ci piacerebbe sapere quanto c’è di autobiografico in questa amara riflessione di Angelo Petyx sull’arte.

Ma lui era stato invitato da Vittorini a lasciar tutto per dedicarsi interamente all’arte.  Perché non ha accettato questo invito? Cosa glielo ha impedito? Questo è un interrogativo che nessuno di noi potrà risolvere, forse la moglie ne saprà di più, ma non potrà sapere quello che gli è passato per la testa nel corso della sua vita per la sua scelta di maestro e non di scrittore a tempo pieno.

Detto ciò ritorniamo al nostro Antonio, alla sua fame, alla sua arte che tentano di fondersi in un grido di tutti coloro che nel mondo soffrono la fame.

“FAME” sarà il titolo del mio nuovo quadro, dice Don Antonio, e la figlia di rimando “ che trovata!” “ E non potresti lavorare a qualcosa di meno triste, lugubre?”

“Eh no, mi ci sto arrovellando da un po’ di tempo e non intendo cambiare soggetto. Le figure in primo piano saremo io, tu e la mamma, mentre i nostri vicini ci faranno da complemento, sfondo, e sarà un lavoro di grand’impegno, perché simboleggia l’umiliazione e disperazione e fame dei siciliani, e di quanti siciliani non sono”.

Questo quadro certamente rappresenterebbe la sinfonia degli oppressi, la colonna sonora di questo lungo racconto degli ultimi.

E il paesaggio, lo sfondo sarebbe da scegliersi tra le meravigliose descrizioni uscite dalla penna semplice, scarna, incisiva di Angelo Petyx.  Ci sarà Arcangela Patata e Santa La Cudù che chiamano i pulcini e le galline sparse sulla strada, il pastone per i polli in una grasta ricavata da una quartara rotta ed ancora in fondo “un sorbo con  le radici contorte di fuori, nodose, le strane foglie composite, i frutti ancora piccoli, acerbi, le stoppie abbacinanti della Rocca ‘Ntronata, i rari mandorli spelacchiati, cachettici, e le viti stente  dei Guarini”  in una campagna riarsa e squallida.

E il cielo sarebbe “colorato di un azzurro pallido, lattiginoso”, con “il fumo che si leva alto e dritto dai fumaioli; i tetti verdi di musco della casa di Arcangela Patata e Santa La Cudù, i muri sbrecciati, corrosi dalla pioggia e dal sole”.

Ma come nel cuore dei personaggi di Petyx ogni tanto si avverte la felicità anche per un piatto di minestra o per un capodanno celebrato con un pezzo di carne fatto in brodo e un poco di pane o per il gorgoglio della pentola piena che bolle e ribolle, così i paesaggi non sono sempre tristi. Nei paesaggi di Petyx non mancano mai le stelle scintillanti a miriadi, i grilli,  la campagna siciliana sfolgorante, i gorgheggi degli usignoli tra gli aranci e i limoni, non manca il sole di luglio che non tramonta mai e che fa impazzire i contadini sotto i suoi raggi roventi e spietati.

E in questo dramma che non è singolo ma di un popolo Dio dov’è? Non vede  la terribile miseria dei suoi figli?  Forse venendo dal Nord si è fermato a Eboli? O è il Cristo di Russello che ha rifiutato di nascere in Sicilia e ha accettato, di nascere in un luogo più terribile come la Palestina?

“Dio non c’è” dice Teresa e vorrei che ci fosse per fare giustizia.

E Antonio dice alla figlia: “….quand’ero alto così che mia zia Antonietta m’ insegnava a ringraziare Dio per avermi creato e fatto cristiano. Questo, appunto, mi domandavo, se davvero, meritava d’essere ringraziato per avermi creato, fatto cristiano  e la risposta è che, magari inconsciamente, io Dio continuo a ringraziarlo perché, altrimenti, non accetterei di  vivere la vita di stenti e di ansie che sto vivendo”.

Antonio va un poco oltre le considerazioni del carrettiere Bacaranu de “La miniera occupata” il quale afferma che se lui fosse Dio non farebbe soffrire la fame a nessuno, neanche al suo mulo. Non farebbe venire neanche le malattie. Tanto, dice Bacaranu, che mi costerebbe, se io fossi Dio.

Il concetto è semplice ,  è la grande filosofia pratica e drammatica dell’uomo comune che non conosce né la teologia, né i testi sacri, ma il dramma del vivere  giorno per giorno da umiliati e offesi nella propria dignità di uomini o di presunti figli di Dio, forse di un Dio minore.

Alla fine Antonio è un perdente, un “vinto” che si aggiunge ai “vinti” di Verga, ai vinti di Alessio Di Giovanni che vivono il dramma della miniera che non è miniera ma “carnala”, “carnala” di carne umana di carusi che sputano sangue.

Questa letteratura viene sicuramente ascritta alla corrente del neorealismo tipico del dopoguerra che trovò anche grandissima espressione nel grande cinema, con film come ‘Ladri di bicicletta’ di de Sica, con  ‘Il cammino della speranza’ di Pietro Germi e con tantissimi altri capolavori. E molti oggi guardano a questa filone letterario con autosufficienza bollandola come letteratura ‘comunista’.

Questa attribuzione o come si suole dire, questa ‘diminutio’ sa di ‘cavaliere’ o di ‘restaurazione’ e noi non l’accettiamo perché sappiamo che Petyx ha descritto la sua realtà per quella che era, cosa che avrebbe fatto con o senza il “neorealismo”. Così come ha fatto Guttuso dipingendo la sua terra o come ha fatto Giambecchina dipingendo la dura fatica dei contadini e delle donne dei contadini.

Il realismo lo si trova anche nella scrittura, dove assistiamo a un’operazione linguistica di grande spessore e di difficile attuazione.

Petyx, a differenza di tanti scrittori contemporanei che infarciscono i loro romanzi di parole in dialetto, traduce i modi di dire siciliani in italiano e ne viene fuori una lingua tutta particolare in cui c’è la filosofia del popolo minuto, degli ultimi e che è la filosofia che ha governato la nostra terra per tanti secoli.

Potremmo fare lunghissime citazioni di questo esperimento ma vogliamo segnalare alcune locuzioni per dare, al nostro lettore, il senso di questa meravigliosa e riuscita operazione:

Quando non si ha voglia di mangiare diciamo: non mangio perché altrimenti  “mi farebbe veleno, mi farebbe”.

Oppure: “che abbiamo fatto al Signore che ci ha fatti poveri?”

“Dio apre una porta e ne apre cento”.

“ Mi abituai a stare sotto l’occhio del sole di luglio”.

“E così è bene che compriamo solo il necessario, non come i palermitani che tanto ne spendono quanti ne guadagnano”.

“Ringraziamo in cielo e in terra”.

“Faccio la volontà del Signore”.

“E domandava ‘come andava la malata’”

“Quando il tempo è alla neve”.

“Ti faccio vedere io di che erba si fa la scopa”.

“A chi ti toglie il pane toglici la vita”

“Sembrano due anime del purgatorio”.

“Chi ebbe fuoco campò, chi ebbe pane morì”.

“Dove manca il pane, mancano la pace e l’amore”.

“Mafioso vino di Vittoria”…per dire di un vino eccellente.

“Gesù e Maria…oggi e sempre sia lodato”….il saluto dei contadini.

“D’ora in avanti ne vedremo più del lino”…per dire di guai

“E quelli che non si guadagnano manco il veleno per avvelenarsi”

Ed infine Petyx non può, per restare alla realtà che lui descrive, che chiamare i suoi personaggi, non con i veri nomi di battesimo, ma con i soprannomi o le “ ‘ngiurie” come noi siciliani diciamo. Per cui abbiamo Papatanchio, Sparapacchio, Mascaretto, Maria La Cucca, Arcangela Patata, Santa La Cudù, Scannacavati, Mezzamancia, Michele Cinciallegra, Lu Liamaro, Liscianniro che sono le comparse di un dramma corale degli affamati che però riescono a rimanere uomini o a impazzire quando questo non è possibile.

Questo libro che, a nostro avviso, è un piccolo capolavoro, è anche un grande documento di un nostro recente passato che tutti hanno dimenticato o che si vuole dimenticare.

Molto spesso ci troviamo in ambienti raffinati con personaggi bene agghindati, in cene di gala, in cerimonie importanti e noi diciamo ai tanti in abito scuro: spogliatevi e sentirete sulla vostra pelle odore di terra, odore di stalla, odore di zolfo o di sale, perché quasi tutti siamo figli di questa realtà, eccetto qualche oriundo della vecchia nobiltà che ora non conta, molto spesso, nulla. Dunque questa letteratura ci deve richiamare alle nostre origini e ai nostri figli dobbiamo far capire da dove veniamo per comprendere veramente chi siamo.

Quello che per i giovani è una cosa normale per noi vecchi è una conquista.

Il bagno in casa, l’acqua in casa, la doccia,  il bagnoschiuma, lo shampoo, la lavatrice, la cucina a gas, per i giovani sono fatti normali, per noi sono una conquista e per questo le gustiamo e ci danno la stessa gioia che Mariuzza provava per un piatto di minestra.

Se questa letteratura che Petyx manipola con ‘ironia beffarda’ dovesse essere discriminata perché da qualcuno, che ne ha il vizio, definita ‘comunista’ allora noi diciamo viva il comunismo.

Ma questo non c’entra niente. La letteratura di Petyx è la letteratura del reale, è la letteratura di Carver, di Lorca, di Verga, di Victor Hugo de “I Miserabili” è la letteratura che gli americani hanno definito “minimalista” e per questo merita un posto di rilievo nella  storia della grande narrativa

Agrigento,lì 28.1.2011