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Nel 1962 viene dato alle stampe La grande sete di Antonio Russello, scrittore nativo di Favara, frutto di una lunga e travagliata gestazione. Lo spunto per la stesura dell’opera viene offerto da un fatto di cronaca nera che in quegli anni riempie le pagine dei quotidiani, l’omicidio, ad Agrigento, del commissario Tandoj.

Le tematiche affrontate all’interno del romanzo, che potrebbe essere accostato quasi al genere dei gialli, mostrano ancora una volta la predilezione dell’autore favarese per argomenti che si sviluppano sullo sfondo di una Sicilia atavica e fuori dal tempo, dove l’unica forma di legislazione vigente è quella che vede perennemente trionfare i più forti. Tuttavia, mentre lo sfondo scenografico all’interno del quale lo scrittore ambienta la trama della vicenda rimane immutato rispetto ai romanzi precedenti, contenuti e stile mostrano un repentino declino che vive e agisce all’interno del tessuto popolare, mentre sempre più spazio è concesso alle classi borghesi e aristocratiche. Si assiste, difatti, ad una lenta ma evidente evoluzione del tessuto linguistico, che mette da parte gli elementi propriamente ascrivibili al gergo del popolo, utilizzato nei romanzi antecedenti, per dar spazio all’uso di un lessico tratto dal parlato quotidiano della media borghesia, non estraneo, talvolta, all’uso improprio di termini aulici dagli effetti iperbolici adoperati per descrivere con particolare icasticità situazioni, avvenimenti e, finanche i tratti fisici di personaggi come Maria, la conturbante moglie del commissario di polizia protagonista dell’opera.

Ad un occhio critico, non sfugge il paragone con certe pagine di un altro scrittore isolano, Vitaliano Brancati, che indulge spesso, come il nostro autore, a descrizioni minuziose e cariche di sensualità: come la Maria Antonietta di Brancati, così quella di Russello è oggetto di ammirazione in città, mentre passeggia lungo la via Etnea. Ma i riferimenti testuali mettono in evidenza altre affinità: come Brancati, Russello impasta sapientemente un tipo di discorso certamente più fluido e scorrevole rispetto alla sintassi spezzata del suo precedente romanzo ad un uso del lessico che non lascia spazio al libero flusso, ma appare oculatamente selezionato al fine di centrare l’obiettivo precipuo dell’opera, descrivere la sete di amore e di sesso, a placare la quale i siciliani dedicano le loro giornate.

Frequenti, all’interno del romanzo, sono i riferimenti ad opere del passato; si possono spesso trovare riferimenti alla sfera del mito, nella misura in cui i contenuti di cui è portatore divengono una sorta di ricordi che rende speciale la terra dei mandorli e il rapporto che essa ha con la sua gente, di madre e custode; ciò appare evidente dalla lettura dell’ode olimpica seconda di Pindaro, composta in onore di Terone, declamata dal professor Augenti mentre, vestito alla greca, si occupa dei preparativi per la festa del mandorlo in fiore:

Ad Agrigento volgi la mira. Con cuor veridico
Pronuncio un giuro: che da cent’anni questa città
Non diede a luce
Uom più benevolo, più liberale verso gli amici.

I toni del discorso e i delicati tratti descrittivi assumono, talvolta, le tinte tenui di un acquarello, i cui colori pastello risaltano in scene come quella in cui l’audace Don Mimì, presa la corriera, si siede accanto all’avvenente Maria Righi e le descrive con toni pacati tutta la bellezza della valle, che si apre loro di fianco, scorta attraverso il finestrino del bus.

Ma i toni pacati di certe descrizioni non fungono che da contrafforti alla dicotomia linguistica e di pensiero in tutto il romanzo, così come si evince dalla lettura delle pagine in cui il commissario Righi, in visita con la moglie Maria alla Valle, guida illustre il professor Augenti, chiede a quest’ultimo chi sia l’uomo siciliano, facendo precedere la domanda da una ricca premessa non scevra dal sarcasmo che caratterizza chi osserva gli abitanti dell’Isola da un punto di vista esterno, non comprendendone i rituali che caratterizzano la complessità dei rapporti umani che li coinvolgono.

I toni epici del discorso, però, carico di altri significati che rimandano alla dimensione non della metafora, bensì dell’allegoria, divengono più cruenti, abbandonando, infine, la sfera del mito per approdare a quella del vissuto: l’unica legge vigente è quella della timé, in virtù della quale i siciliani possono placare la loro sete solo con il possesso, ottenuto coi meriti personali e non per mezzo di leggi e pubblici poteri, col successo ottenuto mediante il prestigio sociale.

La prosa che lo scrittore favarese utilizza in questa opera risulta distante per molti aspetti da quella dei precedenti romanzi, poiché ad un uso studiato della sintassi come elemento collante di un discorso che si svolge tutto tra i due estremi sentimenti di amore e morte (non dimentichiamo, infatti, che la vicenda ha come motore principale il trasferimento in Sicilia del commissario Righi, chiamato a risolvere un intricato caso di omicidio), si unisce un periodare meno spezzato rispetto ai romanzi precedenti, dove l’uso della paratassi è man mano sostituito da quello ipotattico, che rende l’affabulazione meno esplosiva, forse, ma conferisce al discorso quel tocco fluido e certamente dal tratto più delicato, assai vicino alla tensione lirica, almeno per quanto riguarda il piano dell’azione che vede come protagonista la bella Maria.

Un altro capolavoro, La grande sete, della letteratura italiana dimenticata, un altro piccolo gioiello della narrativa che ha conosciuto tempi difficili, ma che oggi si auspica possa ottenere i giusti riconoscimenti negatigli in passato, all’insegna della riscoperta di quegli autori che, come Russello, rappresentano per noi contemporanei una sfida lanciata al modo tradizionale di fare letteratura.
testo pubblicato su :http://www.oltreilmuro.org/2007/08/22/la-sicilia-attraverso-la-grande-sete-di-antonio-russello/