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lisolainnocenteAntonio Russello nasce a Favara il 19 Agosto 1921 ed emigra al nord per insegnare lettere italiane a Treviso. Muore a Castelfranco Veneto il 26 maggio 2001.

Nel 1960 Elio Vittorini gli pubblica nella Medusa degli Italiani La luna si mangia i morti, nel 1963 l’editore Rebellato gli pubblica  La grande sete, nello stesso anno con Ronchitelli pubblica il volume Siciliani prepotenti.

Seguono Venezia zero e Lo sfascismo del 1985 e numerosi testi teatrali dei quali alcuni sono stati rappresentati quali: Ruderi 1946, La terra 1946, Racconto della luna 1973, La ballata degli uomini verdi 1975, Lo specchio  e Inventare i nanetti 1985.

Nel 1969 l’editore palermitano Flaccovio gli pubblica il romanzo  Giangiacomo e  Giambattista che nell’anno 1970 è finalista al Premio Campiello, vinto da Mario Soldati.

Molti critici del tempo notarono il libro che definirono “un piccolo” capolavoro.

Ma il narratore siciliano, adottato dal Veneto, viene presto dimenticato.

Probabilmente occorreva che morisse perché il mondo letterario tornasse ad occuparsi di uno scrittore di grande rilievo che si inserisce nel filone di quella letteratura siciliana che ha fatto grande il novecento se si pensa che due premi nobel per la letteratura sono stati assegnati a due siciliani quali Pirandello e Quasimodo e a tutto il fiorire di letterati, pittori ed artisti di vario genere  che si sono affermati prepotentemente in Italia ed all’estero.

C’ è voluto il coraggio di una piccola ma importante casa editrice di Treviso la “Santi Quaranta” perché dopo 33 anni venisse ristampata una delle opere più significative di Russello cioè il romanzo Giangiacomo e Giambattista con un nuovo ed indovinato titolo “L’isola innocente” suscitando l’interesse di molti critici italiani quali  Luca Desiato che lo ha recensito il 23.febbraio 2003,  Matteo Collura che  ne ha scritto il 15.marzo 2003 sul Corriere della Sera, Nicolò Menniti-Ippolito che ha scritto una brillante relazione sul Mattino di Padova e La Tribuna di Treviso, Giuseppe Quatriglio che ha recensito il libro sul Giornale di Sicilia oltre al giovane critico Ferlita che ha scritto di Antonio Russello sulle pagine  siciliane del giornale La Repubblica del 19.1.2003 e su Stilos, l’inserto culturale del giornale La Sicilia del 16.9.2003

E tutto questo avviene, come scrive lo stesso autore “perché, è destino delle grandi opere di perdersi si, ma il cielo le salva e le fa arrivare in porto”

Il libro di Russello si salva come i libri di Giangiacomo si salvano dal rogo dove arderà il povero precettore: “ I libri, per essere rimasti tanto tempo bagnati, stentavano a bruciare” ed uno dei suoi allievi li trae in salvo così “Giangiacomo, prima che le fiamme gli prendessero il viso, fu contento di veder salvi i libri nelle mani dell’amico” Ed erano gli stessi libri che si erano salvati dal diluvio assieme ad una bibbia. “Tutti i fiumi, dice l’autore, scorrono a mare e tutti i libri ritornano ai maestri”.

Queste citazioni ci fanno capire chiaramente dell’importanza che il nostro Russello attribuisce alla scrittura e quindi ai libri  che non possono morire e che sopravvivono al diluvio ed alle fiamme dei roghi e delle scomuniche ed al tempo che trascorre inesorabile ma che le fa lievitare per venire alla luce al momento opportuno. Ed Antonio Russello era certo che i suoi libri non sarebbero morti e avrebbero avuto il successo che certamente meritavano.  Matteo Collura nella sua recensione esprime “il rammarico di non aver parlato di questo libro mentre il suo autore era in vita. Ma così è la letteratura: una serie infinita di riconoscimenti postumi, di ingiuste graduatorie fomentate dai cantori e cultori del nulla di cui siamo tutti vittime e, nel nostro caso, anche involontari complici”.

Ed anche noi  che siamo stati per tanti anni componenti della Giuria del Premio letterario Racalmare  con le presidenze prestigiose di Sciascia, di Maria Andronico, di Bufalino e di Consolo dobbiamo esprimere il nostro rammarico per non avere notato questo scrittore; ma la giustificazione sta nel fatto che il libro  di maggior successo è uscito nel lontano 1969 e noi agli inizi degli anni ottanta non potevamo fare una riscoperta di questo tipo.

Ma considerato che l’autore aveva previsto questi accadimenti della  sua vita letteraria  vediamo cosa  pensa di questo suo destino  mentre parla  del suo personaggio Giambattista: “Quando si sparse la voce della sua morte a Napoli, tutti gli Accademici si mossero a corteo dall’Università, in cappa magna e per onorare il morto, portavano sopra un cuscino rosso il manoscritto della sua opera. Un valletto, sopra un  altro cuscino portava l’uniforme di accademico, con la quale dovevano vestire Giambattista, al quale avevano conferito seduta stante, la nomina ad ordinario di diritto, “honoris causa” in quell’Università. Si mossero dentro i loro cappucci, tutti gli uomini delle varie confraternite cittadine…Chi gliel’avrebbe detto a Giambattista Greco che queste cose gli dovevano capità dopo muorto?”.

Dopo questa premessa che ci sembrava doverosa, è giusto parlare del libro oggetto della nostra attenzione e che ha come protagonisti Giambattista e Giangiacomo, uno educatore a Napoli e l’altro in Svizzera, che vengono in contatto in maniera casuale con l’ausilio del piccione viaggiatore di Giambattista che diventa il postino dei due. Giambattista  vuole rappresentare il pensiero di Vico mentre Giangiacomo quello di Rousseau.

L’istitutore napoletano cerca la gloria e la ricchezza con un’opera filosofica che aveva intitolato “Della nuova maniera di vedere e sentire le cose del mondo” mentre il suo omonimo ed ispiratore Giambattista Vico aveva scritto e pubblicato nel 1725 “La Scienza Nuova” Principi di una scienza nuova d’intorno alla comune natura delle nazioni, teorizzando il concetto dei “corsi e ricorsi storici” a cui fa riferimento l’istitutore napoletano che scrive “:La storia è una ruota che gira e torna al punto di prima…è fatta di stagioni abbondanti(sic) e di stagioni scarse…come qualmente che dopo un periodo di civiltà, occorre all’umanità,  per purgarsi(sic) dei suoi veleni, un periodo di barbarie”. Ma gli accademici napoletani non capiranno la grandezza del suo scritto e lo prendono in giro ridicolizzandolo. Giambattista, per dare da mangiare alla moglie e ai suoi sette figli, è costretto a recitare poesie ai matrimoni e orazioni funebri ai funerali; dovrà aspettare la morte per avere il suo giusto riconoscimento.

Le lettere non danno pane gli dice la moglie Concetta ed i figli vanno in giro per la città a cercare lavoro e portano pane a casa  mentre i vicoli spagnoli della Napoli settecentesca diventano l’università di questi giovani che apprendono tutte le malizie della vita e imparano anche che i figli nascono “ D’in mezzo alle gambe di mammà”.

A questo punto Giambattista capisce che deve abbandonare i libri per indossare la divisa e andare in giro per il mondo. Prende penna e scrive al suo collega ginevrino Giangiacomo “Caro amico, la mia opera è stata un fiasco solenne, eppure la Provvidenza m’ha condotto per mezzo di questa avversità  all’opera mia che per se vale più delle lodi ricercate, è conforto vero fra tanti affanni. Oscura l’hanno chiamata ed un giudizio ha tirato l’altro come una ciliegia tira l’altra, tanto che qui tutti mi possono intendere e chiamare l’uomo oscuro.. Il mestiere di precettore non m’ha dato nulla mai e bisogna barattarlo con un altro più utile.’A gente un vo’ sapè d’educazione.Vi do la mia parola che cambio mestiere e divisa.

Vedo che siamo all’ultimo quarto di luna e agisco sotto il segno di Marte che esercita in me un nuovo influsso e mi fa oscillare tra gli studi e le armi.

Credo di decidermi. Adieu. Ormai non più

Vostro Giambattista”.

Così il precettore napoletano lascia la famiglia e la sua Napoli e va per l’Italia, divisa in tanti staterelli che nessuno è in grado di rappezzare, salendo sempre fino al Nord per andare alla fine ad incontrare, il suo amico Giangiacomo che, al contrario di lui, seguendo l’esempio di Rousseau, si ritira in mezzo ai boschi, dove trova una ciurma di ragazzini sbandati che cerca di istruire con il semplice contatto con la natura e sottraendoli alla contaminazione del mondo.

Scrivendo al suo amico Giambattista dice:

“Mon cherì ami Giambattista, ho cambiato domicilio e con esso stato civile. Non che mi sia ammogliato, sebbene le cose stiano come se lo fossi, con tanti figli che mi sono visto ruzzolare tra i piedi. Ho scoperto una banda di ragazzi selvatici che parlano una lingua mezzo barbara e mezzo civile. Ho fatto loro da maestro e continuerò a farlo. Se potrò, cercherò di nascondere loro tutto il male (intrighi, tradimenti, guerre) che viene dalla cosiddetta civiltà, e voglio sperimentare questa nuova scuola nel più vile dei corpi, quello del vostro

Giangiacomo Gibard”.

Ma evidentemente Giambattista non può condividere queste idee e gli vuole scrivere su una corteccia di albero che “Si muore d’isolamento. Si fa un bel dire che è meglio starsene in mezzo alla natura, agli animali, ma il cuore, il cuore dell’uomo è un’altra cosa Vogliamo averlo vicino anche se batte in modo diverso dal nostro, si ha bisogno di veder vivere gente anche nel segno dell’inimicizia, della lotta, del sangue e della morte”.

E l’isolamento dalla società non è possibile perché l’uomo e gli avvenimenti ti coinvolgono.

Infatti nel bosco di Giangiacomo arrivano i soldati che incominciano a tagliare gli alberi per costruire una nave. Una nave in mezzo al bosco? Ma quale logica ha costruire una nave in mezzo ad un bosco? Ma la logica chi l’ha inventata? Sarà stato un plebeo, un borghese, un fannullone un intellettuale, ma non un soldato. T’oh, gaglioffo di un Cartesio, sarà stato quel chiacchierone di un francese! Cartesio che inventa il razionalismo moderno e che contribuisce a distruggere la vecchia società feudale per favorire l’affermarsi della nuova borghesia che, con la rivoluzione francese, cambierà il destino del mondo.

A questo punto viene il diluvio che sommerge tutto il bosco e la chiglia della nave in costruzione si mette a galleggiare  salvando dalla morte Giangiacomo e la sua tribù di ragazzi.

La comunità si abitua a vivere in questa nuova situazione e continua a respingere gli attacchi dei soldati e quindi dell’ambiente esterno. Ma alla fine vince la forza delle armi e Giangiacomo viene catturato e condannato a morte e suoi ragazzi vengono presi dal mondo per inserirvisi e diventare anche protagonisti della nuova rivoluzione borghese. E Giangiacomo resta angosciato, tremante e annichilito, per la sorpresa di come i nostri figli, i nostri discepoli, nei rivolgimenti politici, non ci riconoscono più. Chi lo sa che  il nostro autore non pensasse ai ragazzi del 68 e a quegli avvenimenti che cambiarono tantissime cose nel nostro paese. Russello era un insegnante di Liceo e certamente avrà conosciuto quel movimento e lo avrà anche subito e studiato per cui i ragazzi del bosco allevati da Giangiacomo, a nostro avviso, sono gli stessi che misero in discussione i baroni delle Università e tante vecchie concezioni della vita.

Il maestro ginevrino viene messo al rogo mentre pensava all’esemplare morte del suo predecessore e peripatetico collega Socrate che aveva disprezzato con disdegno la vita, come solo sanno disprezzare con disdegno quelli che sono già in gran dimestichezza coi cieli.

Prima di morire, non ancora intaccato dal fuoco, vide con piacere i tre lupacchiotti che aveva allevato che se n’erano scappati nel bosco. “Meglio così- pensava- ritornate ad esser lupi, nel bosco ritroverete il vostro esatto istinto, che non si debba dire di Giangiacomo, come di San Francesco si disse, che vi avrebbe alterata la natura, facendovi santi.

Il fuoco si alza ed avvolge Giangiacomo il quale dice “Muoio sereno. Vi lascio in un mondo di guai, perché dopo la mia morte, queste fiamme da qui cominceranno a bruciare tutta la Francia”.

Giambattista, arrivato fino al bosco, assiste alla morte del suo amico e quindi decide di tornare alla sua Napoli dove muore ed ottiene il riconoscimento della sua opera letteraria.

Come ognuno avrà potuto capire dalla nostra esposizione risulta chiaro che Russello ha tentato di ricostruire il settecento europeo con i suoi filosofi con  le tensioni sociali che il secolo dei lumi ha reso stridenti tra la vecchia nobiltà e la nuova borghesia che cerca di conquistarsi gli spazi politici ed economici che gli competono per cui nel libro oltre a Vico e Rousseau, a Cartesio, troviamo Voltaire e “l’esprit” che hanno creato l’illuminismo e tutto il movimento politico e culturale dell’enciclopedia che ha incendiato la Francia ed il mondo intero. Ed in questo riesce perfettamente perché, con grande maestria, ci ricostruisce i salotti settecenteschi, la cultura dei religiosi e dei nobili che storcono il muso dinanzi alle novità che irrompono prepotentemente spazzando privilegi del clero. “Ho la convinzione, dice l’autore, che si voglia cambiare il Dio nostro con un nuovo idolo, ora è venuto di moda lo Stato, come se con esso potessimo sostituire secoli di cristianità. Così al libro si sostituisce il giornale….La borghesia cerca di prendere il sopravvento sulla nobiltà e sul clero. Brutti tempi, caro conte”

….”Che smania hanno tutti di rinnovamento, quando l’Europa mai è stata meglio di così….abbonda di beni, agi piaceri del corpo, della mente e dell’animo…Noi, confessiamolo, ci stiamo bene così: titoli in banca, ville, servitù; e voi, conte, stando così avreste l’animo di cambiare tutto?

Ma sono gli altri che lo vogliono, che titoli in banca, ville servitù non hanno. E abbiamo alle costole un nuovo vento che ci soffia, il vento dell’America coi suoi popoli nuovi”.

Libro di libri, dunque, scrive Nicolò Menniti-Ippolito sul Mattino di Padova e su La Tribuna di Treviso dell’aprile 2003, libro di pensiero, ma anche fresco, con un andamento favolistico mai rinnegato, e una scrittura agile, ironica, in cui il sapore d’epoca è reso con pochi elementi misurati e in cui l’assunto filosofico (è il metodo che fa gli allievi) non sopravanza la voglia di raccontare.

La vicenda raccontata, scrive Luca Desiato il 23 febbraio 2003, risulta così stimolante, di quelle che si vorrebbe leggere più spesso nei nostri tempi di disimpegno.

Un racconto fantasioso, leggero, fantasmagorico, scrive  Matteo Collura il quale sottolinea l’impagabile napoletano in cui Giambattista e sua moglie si esprimono (e tu arricuorditi, e tu arricuorditi).

Noi abbiamo scritto queste note più che con il cervello, con il cuore,  perché siamo stati toccati profondamente da questo libro per cui abbiamo paura di esprimere un giudizio che certamente potrebbe apparire, agli occhi di altri lettori, di parte.

Ma certamente vogliamo dire che ci troviamo in presenza di un’opera di grande spessore che ci mostra un autore che ha mestiere, che sa narrare con maestria e leggerezza e che sa volgarizzare i concetti filosofici del secolo dei lumi rendendoli  gradevoli e godibili  oltre che accessibili al grande pubblico che certamente potrà trovare grande godimento nel leggere il libro di Antonio Russello.

Russello si inserisce a diritto nel filone dei grandi scrittori siciliani e Sciascia di questo ebbe contezza, recensendo nel 1960 il romanzo La Luna si mangia i morti. Ma di ciò parleremo in altra sede.

Andremo a scavare nelle carte, negli scritti e nelle testimonianze per sapere se vi fu un contatto con i grandi scrittori nostri contemporanei.

Ad ogni buon fine noi siamo certi che L’isola innocente e le altre opere di Russello quali La Luna si mangia i morti, che sarà quanto prima pubblicato dallo stesso editore Santi Quaranta, La grande sete, Venezia zero, Lo sfascismo  ed altre ritorneranno a vivere per dare la giusta fama all’autore siculo-veneto.

Agrigento,lì 11.9.2003

Gaspare Agnello