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Il 21 di Gennaio del 2012 se ne è andato l’ultimo dei tre grandi letterati europei degli ultimi decenni del novecento, Vincenzo Consolo.

Sciascia, Bufalino, Consolo hanno fatto grande la letteratura siciliana dandole un respiro universale come del resto è avvenuto per tutti gli scrittori siciliani del ‘900 senza i quali la lettartura italiana di quel secolo sarebbe stata ben poca cosa.

E noi ancora una volta ci battiamo perché venga fatto uno studio approfondito per capire, come ha fatto Gramsci per il Rinascimento, i motivi della universalità della letteratura siciliana le cui dimesiioni sono veramente eccezionali.

Consolo è nato a Sant’Agata di Militello in quel di Messina nel 1933, sesto di otto figli e avrebbe compiuto 79 anni il 18 febbraio.

Respirò la poesia del suo vicino di casa Lucio Piccolo di Calanovella con cui ha intrattenuto un esitante sodalizio.

Dice Sciascia: “…Tutto, in come è Consolo e com’era Piccolo, li destinava a respingersi reciprocamente: l’età, l’estrazione sociale, la rabbia civile dell’uno e la suprema indifferenza dell’altro; eppure si era stabilita tra loro una inconfessata simpatia, una solidarietà apparentemente svagata ma in effetti attenta e premurosa, una bizzarra e bizzosa affezione. Il fatto è che tra loro c’era una segreta, sottile affinità: la sconfinata facoltà visionaria di entrambi, la capacità di fare esplodere, attraverso lo strumento linguistico, ogni dato della realtà in fantasia. Che poi lo strumento avesse la peculiarità della classe cui ciascuno apparteneva, di “degnificazione” per Piccolo, di “indegnificazione” per Consolo-non toglie che si trovassero, ai due estremi del barocco, vicini”.

Si laurea in Filsofia del Diritto a Milano dove si era trasferito per seguire gli studi universitari nella città nella quale  erano stati Verga, Capuana, De Roberto e quindi Elio Vittorini.

Fa il militare a Roma e ritorna in Sicilia dove insegna presso le scuole agrarie in sperduti paesini dell’interno della Sicilia.

Nel mentre, viaggia in lungo ed in largo in tutta la Sicilia per conto del Giornale “L’Ora” di Palermo, venendo a contatto dei fatti e dei misfatti della Sicilia, terra di mafia, di violenza, terra che Consolo ama e odia, perché la vede bella, piena di storia, intrisa del mito greco e della luce di Lucia, ma irredimibile per via di un destino amaro, la irredimibilità di Tomasi di Lampedusa, di Bufalino, di Sciascia.

Nel 1968 vince un concorso alla Rai e quindi si trasferisce a Milano dove resterà fino alla morte ma sempre con il cuore e la mente alla sua Sicilia di cui scriverà sempre.

Nel 1963 pubblica “La ferita dell’Aprile” con la Mondadori nella collana diretta da Nicolò Gallo e Vittorio Sereni  e nel 1976 “Il sorriso degll’ignoto marinaio” con l’Einaudi e ripubblicato dalla Mondadori nel 1997, che gli dà ampia notorietà.

Quindi pubblica “Lunaria” con la Einaudi nel 1985-Mondadori 1996, con il quale vince il premio Pirandello, Retablo con Sellerio 1987-Mondadori 1992, “Le pietre di Pantalica” Mondadori 1989, “Nottetempo casa per casa, Mondadori 1992, “L’ulivo e l’olivastro” Mondadori 1994, “Lo Spasimo di Palermo” Mondadori 1998.
Nel 1992 vince il premio Strega con il libro “Nottetempo casa per casa”, il Premio Internazionale Unione latina nel 1994 con “L’olivo e l’olivastro”. Nel 1988 vince la quarta edizione del Premio Racalmare, presieduto da Leonardo Sciascia, con il libro “Retablo” e  con lo stesso libro, il premio Grinzane Cavour(1987).

Al compimento dei 70 anni la Sorbona di Parigi gli dedica tre giorni di studio, mentre l’Università di Roma gli conferisce la laurea in lettere Honoris Causa.

Consolo più che narratore, era soprattutto scrittore e questo lo asserisce lui stesso. In una intervista al giornale “L’Ora” del 1982 afferma: “Con lo scrivere si può forse cambiare il mondo, con il narrare non si può, perché il narrare è rappresentare il mondo, cioè ricrearne un altro sulla carta. Grande peccato, che merita una pena come quella dantesca degli indovini, dei maghi, degli stregoni”.

Ma lo scrivere porta al narrare e Consolo  per questo fa appello alla memoria che è l’essenza della vita e della cultura, collimando, in questo, con il suo grande amico Leonardo Sciascia di cui fu fedele e affettuoso compagno di avventure letterarie. “I suoi romanzi, scrive Flora Di Legami, sono costruzioni metaforiche, dense di tensione intellettiva e di fascino poetico. Sono metaforici i titoli delle sue opere: La ferita dell’Aprile, Il sorriso dell’ignoto marinaio, Lunaria, Retablo. Metafore narrative attorno a cui ruotano, come cardini ideali dell’invenzione consoliana, oggettività e finzione, poesia e coscienza critica”.

Ancora Flora di Legami scrive: “Dai suoi romanzi emerge il profilo di un intellettuale al bivio fra saggistica e letteratura, dello scrittore meridionale sradicato ma attento ai problemi dela propria terra, deluso dalla realtà ma non rinunciatario, pronto, anzi, ad intervenire dialetticamente; ‘di un isolano, insomma, che unisce-come ha scritto Tedesco per Bruno Caruso-un continuo sognare all’assiduo meditare”.

Subisce certamente l’influsso della dominazione spagnola in Sicilia e la grecità che tutti i siciliani respirano.

Influirono su di lui Vittorini, Brancati, Verga, Lucio Piccolo, però alla fine cercò e trovò la sua strada che fu la prosa che tende alla poesia. Le sue opere possono sembrare di difficile lettura. Lui stesso farà dire al Giudice che gli dà un passaggio in macchina: “Ho letto i suoi libri…diffiicili dicono”.Però, diciamo noi, quando l’orecchio del lettore si abitua al ritmo poetico della prosa consoliana, allora la lettura diventa magia, musica, ritmo: “Rosalia. Rosa e Lia. Rosa che ha inebriato, rosa che ha sventato, rosa che ha ròso, il mio cervello s’è mangiato. Rosa che non è rosa, rosa che è datura, gelsomino, bàlico e viola; rosa che è pomelia, magnolia, zàgara e cardenia…”

“…Erano venditori d’incanti e illusioni: musici, saltimbanchi, cantastorie, cerretani, poeti, indovini, ciurmadori…Era la vita, dona Teresita, la vita nel suo infinito svariare o colorirsi, nella sua più reale consistenza e nelle sue fughe fantastiche e irreali…”

Tutto questo era Vincenzo Consolo, musico, saltimbanco, cantastorie, indovino, ciurmatore, questa era la vita, ma soprattutto maestro della parola. Scrive nel suo ultimo libro testamento “Lo Spasimo di Palermo”:

“Dure, levigate erano le Poésies che leggeva e rileggeva dal viaggio, cercava di scalfire, e più le Proses. Capiva che sempre sul ciglio dell’abisso la parola si raggela, si fa suono fermo, forma compatta, simbolo sfuggente…” “…Fai progressi. Ancora un poco e sei alla poesia…” “…Le parole con cui ti mascheri e nascondi sono solo una pazzia recitata, un teatro dell’inganno…”

E ancora vediamo cosa fa dire al poeta Antonio Veneziano che poi è quello che, a mio avviso, pensa l’ultimo Consolo tanto ‘SCONSOLATO’: “Abborriva il romanzo, questo genere scaduto, corrotto, impraticabile. Se mai ne aveva scritti, erano i suoi in una diversa lingua, dissonante, in una furia verbale ch’era finita in urlo, s’era dissolta nel silenzio. Si doleva di non avere il dono della poesia, la sua libertà, la sua purezza, la sua distanza dall’implacabile logica del mondo. Invidiava i poeti…”

Il pessimismo prende il sopravvento in Consolo il quale capisce che  “Lo Spasimo” è il suo ultimo canto, il più doloroso e drammatico che pochi hanno capito. Dopo lo Spasimo non scrisse più altri romanzi. Sciascia, pessimista, scrive e quindi continua ad aver fede. Un giorno chiesi a Sciascia perché questo suo pessimismo e come era possibile credere nel fututuro se si cade nel più nero pessimismo? Sciascia mi rispose: se scrivo vuol dire che ho fede in qualche cosa e quindi speranza. Bufalino non vuole credere al nuovo anno che viene perché ogni anno che viene gli rende, allo specchio, la barba sempre più bianca. Ma se due ragazzi si scambiano i numeri di telefono vuol dire che il mondo ha un domani.

Consolo invece con la sua ultima opera getta la spugna e uccide le sue Lucie che sono simbolo di luce e di speranza quella speranza che aveva avuto acquistando un piccolo attico a Ortigia per godere la luce della terra della Santa protettrice della luce e quindi degli occhi. L’ultima Lucia forse è Rosa Pilenga la donna che lo seguì sempre con affetto e con amore e che sapeva ammansire il suo carattere scontroso.

Ecco cosa fa dire a un suo personaggio de “Lo Spasimo di Palermo”: “Sappi che non per rimorso o pena io l’ho sposata, ma per profondo sentimento, precoce e inestinguibile. Quella donna, tua madre, era per me la verità del mondo, la grazia, l’unica mia luce, e sempre viva”.

Queste parole sono l’unico raggio di luce di Consolo, l’ultima sua consolazione: la donna, la compagna della vita.

Mentre cade la fiducia nella parola, nello scrivere come salvezza di vita: “ Chiese al padre se scriveva. ‘Nulla’ disse. ‘Ho assoluta ripugnanza, in questo stordimento, nell’angoscia mia e generale’. Non scrivo neanche dediche.

‘Altri riescono, e assai felicemente…il castoro ligure, il romano indifferente, l’amaro tuo amico siciliano…’

‘Hanno la forza, loro, della ragione della chiarità, la geometria civile dei francesi. Meno, meno talento, e poi mi perdo nel ristagno dell’affetto, l’opacità del lessico, la vanità del suono’”.

E cade anche la fiducia nei letterati: “Piano, vai piano…tu e i soavi letterati siete le epigrafi d’ ornamento, la lapide incongrua e compiaciuta sul muro di quel carcere mentale, quel manicomio, d’annientamento”.

Consolo prende atto del fallimento della sua generazione: “Abiamo fallito, prima di voi e come voi dopo. Nel vostro temerario azzardo”

E conclude: “ho fatto…la mia lotta, e ho pagato con la sconfitta, la dimissione, l’abbandono della penna.

“Forse era tornato a praticare, e lo negava, il francescano ausilio, la cristiana carità…”

E mentre il dolore lo assaliva e lo invadeva, come al Vice de “Il cavaliere e la morte”,accomunato nell stesso destino del suo amico e maestro Leonardo di Regalpetra, avrà sicuramente detto:

“O gran manu di Diu, ca tantu pisi,

cala manu di Diu, fatti palisi!”

E la mano di Dio è calata inesorabile il 21 gennaio 2011 per ricongiungerlo a Sciascia e Bufalino per continuare la loro lunga risata.

E noi ce ne ricorderemo, di questo grande poeta.

Agrigento, l’ 22.1.2012